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19 settembre 2024 4 19 /09 /settembre /2024 06:46

Si tratta di una mia nota del 2009, scritta a commento di una foto da me scattata (testo in buona parte di tipo compilativo)

Maurizio Crispi (18 settembre 2009)

Lombrico stanato dalla pioggia

Dopo la pioggia vengono fuori i vermicelli, lunghi e grassi
In realtà, si tratta di quelli che più appropriatamente si chiamano lombrichi e, quando si parla di lombrichi, il pensiero non può che correre a Darwin.
Su queste umili creature Charles Darwin, che oggi compirebbe 200 anni, scrive l’ultimo libro della sua vita, nel 1881, un anno prima di morire. Il libro si intitola "The formation of Vegetable Mould, Through the action of Worms, with Observation on Their Habits"  (tradotto in italiano con il titolo "L'azione dei vermi") e molti studiosi lo considerano una curiosità o addirittura una stranezza, non all’altezza di un naturalista del suo calibro.

Fa eccezione Stephen Jay Gould, che sostiene che quest’ultima opera è «una celata sintesi dei principi di argomentazione, elaborati lungo un’intera vita, identificati e utilizzati nella più grande trasformazione della natura mai prodotta da un solo uomo». «I vermi – continua Gould – sono a un tempo umili e interessanti, e il lavoro di un verme, se sommato per tutti i vermi, per lunghi periodi di tempo, può plasmare il paesaggio e modellare il suolo». Il terreno è qualcosa che l’intuito ci porta a considerare come molto stabile, se non addirittura immutabile. Forse è perché ci appoggiamo sopra le nostre case, i beni immobili cui affidiamo il nostro benessere e la nostra protezione. Darwin dimostra però che il suolo tanto stabile non è perché è in realtà sottoposto a un continuo fermento provocato dai lombrichi.

Darwin svela l’entità del lavorio di queste piccole bestie sulle turbolenze del suolo in maniera meticolosa. Innanzitutto dà i numeri, calcolando «quale vasto numero di vermi vive non visto da noi, sotto i nostri piedi»: oltre 21 000 per ettaro di suolo britannico (pari a 142 chilogrammi di vermi). Poi con i dati che raccoglie da persone sparse in ogni angolo del pianeta, arriva a concludere che i vermi sono distribuiti in maniera molto più ampia e in una varietà di ambienti ben superiore rispetto a ciò che noi possiamo immaginare. Quindi scava buchi profondi nel terreno per vedere quanto i vermi si estendono in profondità nel suolo. Infine cerca evidenze dirette del continuo ricircolo del terriccio sulla superficie terrestre, che sarebbe provocato dall’ingestione e dall’escrezione della terra da parte di queste bestie tubuliformi.

Darwin compì numerose, pazienti misure degli escrementi dei lombrichi, che stima variare fra 3 e 7 tonnellate per ettaro. Secondo i suoi calcoli ogni dieci anni si formano fra 2 e 6 centimetri di nuovo terriccio. Sono numeri non trascurabili, se li moltiplichiamo per migliaia di anni. Viene da pensare che i vermi abbiano contribuito ad affossare le rovine greche e romane su cui si sono costruite le nostre città medievali e moderne. L’ultimo libro di Darwin è dunque, citando di nuovo Gould, «un trattato esplicito sui vermi e il suolo, e una discussione velata di come è possibile imparare sul passato studiando il presente».

Buon compleanno Mr. Darwin!

Il saggio ultimo di Darwin fa riflettere sulla finitezza della vita e sul modo in cui attraverso la morte e il disfacimento si generi di continuo nuova vita

Charles Darwin, L'azione dei vermi

Charles Darwin, L'azione dei vermi (a cura di Giocchino Scarpelli, nella traduzione di Milli Graffi), Mimesis, 2012

Ultima opera di Charles Darwin, questo studio sulle piccole creature della terra convalida la teoria dell’evoluzione. Come una metafora dell’intero sistema, il lombrico agisce allo stesso modo della selezione naturale: lavora in modo nascosto e instancabile, e con la complicità del tempo è in grado di trasformare la faccia del pianeta. Dedicato appunto allo studio delle creature più ordinarie e umili, il testo del grande naturalista rivela come i lombrichi, nel loro inesausto impegno nel rivoltare e vagliare la terra, producano alla lunga vasti e inaspettati effetti, dalla formazione dell’humus al dissodamento del suolo, alla trasformazione del paesaggio stesso. Tutt’altro che esseri spregevoli, nonostante l’aspetto, i lombrichi delle pagine di Darwin, dalle quali trapela una poeticità profonda, dimostrano anche barlumi di quella che chiamiamo intelligenza. Qual è allora il lascito di Darwin, in quest’opera che precede di poco la sua scomparsa? Che la Selezione Naturale è come un verme, cieca e instancabile. Che l’uomo non è l’unico detentore dell’intelletto. Che esiste nel regno animale una scala nella distribuzione di facoltà e disposizioni, ma nessun salto, poiché la nostra origine è comune. Anche se tocca alla specie umana il dovere di salvaguardare e preservare il mondo vivente.

Charles Darwin (1809-1882) con la teoria dell’evoluzione biologica per selezione naturale ha rivoluzionato la scienza, la filosofia e il pensiero occidentale. L’azione dei vermi nella formazione del terriccio vegetale fu pubblicata nel 1881, benchè quello di Darwin fosse un interesse che risaliva al 1837. Le sue opere più celebri sono Viaggio di un naturalista intorno al mondo (1839), L’origine delle specie (1859), L’origine dell’uomo (1871) e L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872).

Giacomo Scarpelli insegna Storia della Filosofia all’Università di Modena e Reggio Emilia. È autore dei volumi Il cranio di cristallo. Evoluzione della specie e spiritualismo (1993), Il dio solo. Alle origini del monoteismo (1997), La scimmia, l’uomo e il Superuomo. Nietzsche: evoluzioni e involuzioni (2008), Ingegno e congegno. Sentieri incrociati di filosofia e scienza (2011). Ha curato l’edizione di opere di Kant e di Bergson e Storia della biologia in Italia (1987). 

Milli Graffi, poetessa e anglista, ha insegnato all’Università di Verona. Dirige la rivista “Il Verri”. Ha pubblicato i volumi di versi Mille graffi e venti poesie (1979); Fragili Film (1987); L’amore meccanico(1994); Centimetri due (2003), Embargo voice (2006) e, inoltre, studi su Marinetti, Palazzeschi e Breton. Tra le sue traduzioni Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio (1989), e La caccia allo Snualo (1985) di Lewis Carroll.

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21 agosto 2024 3 21 /08 /agosto /2024 11:25
La Parabola del Seminatore di Octavia E. Butler

La parabola del seminatore (Parable of the Sower), opera della maturità di Octavia E. Butler e pubblicata in lingua originale nel 1993 (in lingua italiana per la prima volta nel 2000, nella traduzione di Anna Polo nei tipi di Fanucci, collana Solaria) è un racconto di speranza che si svolge in un futuro distopico, in cui gli Stati Uniti sono diventati una nazione in rovina, le città sono cinte da mura, e ovunque si diffondono epidemie, incendi e follia. Lauren Olamina è una ragazza di 18 anni afflitta da una sindrome di iperempatia, che la costringe a provare il dolore che vede negli altri. Quando l’enclave in cui vive viene distrutta, assieme alla sua famiglia (quasi nessuno sopravvive) e ai sogni per il futuro, Lauren afferra uno zaino pieno di scorte (che già aveva predisposto da tempo, preconizzando un possibile crollo) per iniziare un difficile viaggio verso nord, alla ricerca di un luogo in cui vivere in relativa sicurezza, senza dover abbandonare la speranza. Lungo la strada, al primo manipolo di sopravvissuti si aggiungono altri fuggitivi, ai quali Lauren rivela il suo personale credo religioso, Il Seme della Terra, il cui assunto fondativo è semplice e al tempo stesso rivoluzionario: “Dio è cambiamento”.
L’opera, pur essendo considerata all'unanimità mainstream, si può definire sicuramente come un romanzo catastrofico e post-apocalittico ovvero anche come una narrazione in cui l’apocalisse è ancora in divenire, ma non si è ancora manifestata nei suoi più drammatici esiti: quello tratteggiato da Octavia Butler è un mondo in via di disgregazione, in cui non vi sono più certezze e nemmeno sicurezze precostituite. Coloro che vivono ancora in aree relativamente sicure sono sottoposti ad incursioni sempre più violente da parte di quelli che hanno già perso tutto e che sono alla ricerca di cibo, di soldi, di strumenti e utensili, di armi; le forze di polizia sono ormai inefficienti e chiedono di essere pagate per i loro interventi, se non diventano esse stesse attivamente ladronesche; in più, vi sono i consumatori di una droga letale, il cui nome è “Piro“, e che spinge i suoi consumatori ad appiccare incendi letali, poiché dalla visione della loro potenza distruttiva traggono fremiti estatici. E non mancano situazioni di cannibalismo da parte dei più disperati ed affamati, assieme all’insorgere di nuove forme di schiavismo.
Proprio a causa della piaga dei piromani comincia a verificarsi il definitivo tracollo delle aree ancora protette e molta gente, inclusa la nostra protagonista, si mette per strada alla ricerca di posti ancora sicuri: una sorta di “ferrovia sotterranea” alla ricerca di salvezza e di un luogo sicuro dove vivere.
La narrazione si sviluppa attraverso i regolari aggiornamenti del diario tenuto da Lauren, mentre - in parallelo - si sviluppa la sua convinzione di fede e speranza, statuita dal dogma secondo cui “Dio è cambiamento”, dal 20 luglio del 2024 al 10 ottobre del 2027.
Il seguito è ne “La parabola dei talenti” (Parable of Talents) del 1997.
Il romanzo di Octavia E. Butler, pubblicato in lingua originale nel 1993 è un testo visionario che non propone soluzioni correttive all’incipiente disastro, se non la fede nella speranza di un futuro migliore.
Vi è dunque una componente salvifica e messianica, così come nel successivo e celebrato romanzo di Cormac McCarthy, La strada, del 2006.
L’edizione originale Fanucci è preceduta da una splendida e documentata prefazione di Sandro Pergameno.
In fondo alla stessa edizione è possibile leggere una breve intervista rilasciata dalla stessa Butler, che racconta gli esordi della sua carriera di scrittrice e indica quanto nella scrittura de “La Parabola del Seminatore” sia stata influenzata dalle atmosfere e dalle suggestioni religiose e culturali della propria famiglia.
Alla domanda su quali siano state le persone che hanno influenzato il suo lavoro, risponde
I miei parenti, mia madre e mia nonna, e il loro continuare a vivere delle vite che io ritenevo orribili. Ci è voluto parecchio tempo prima che capissi l’importanza della religione nelle loro vite. A volte era tutto quello che avevano. Ci sono stati momenti in cui stavamo per morire di fame, altri in cui gli avvenimenti erano tali persone meno forti avrebbero pensato al suicidio. Ma loro avevano una religione, e le ha aiutate moltissimo. Da ragazzi si è arroganti perché non si capisce molto, e io lo sono stata spesso, fino a quando ho iniziato a capire quanto la religione significasse per loro. A quel punto ho iniziato a vedere la religione in modo diverso e ho scritto ‘La parabola del seminatore’, in cui il padre della protagonista è un prete battista. Mio nonno era un prete battista, ma non l’ho mai incontrato. Mio padre è scappato di casa. In realtà se ne andò via da da Pittsburgh, e fuggì in California, perché mio nonno voleva farlo lavorare nelle acciaierie, e lui non voleva. (…) … mio padre morì, così non ho conosciuto davvero neanche lui. Ho qualche ricordo che probabilmente è la somma di memoria confuse e di quanto mi ha detto mia madre. Credo che tutto ciò che ci accade, lo si voglia o meno, finisca nella propria scrittura. E il fatto di scrivere cambia il tuo modo di essere, e come guardi il mondo.” (Ib. pp. 345-346)

La parabola del seminatore (Octavia E. Butler)

Ne consiglio vivamente la lettura.

Il titolo si ispira alla parabola del seminatore contenuta in versioni lievemente differenti nei Vangeli di Marco, Matteo e Luca (ed anche in quello di Tommaso)
 

(Dal Vangelo secondo Matteo) Il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte del seme cadde lungo la strada; gli uccelli vennero e la mangiarono. Un'altra cadde in luoghi rocciosi dove non aveva molta terra; e subito spuntò, perché non aveva terreno profondo; ma, levatosi il sole, fu bruciata; e, non avendo radice, inaridì. Un'altra cadde tra le spine; e le spine crebbero e la soffocarono. Un'altra cadde nella buona terra e portò frutto, dando il cento, il sessanta, il trenta per uno.

Aggiungiamo - a beneficio di coloro che volessero intraprendere la lettura di questo romanzo qui che “La parabola del seminatore” è stato ripubblicato recentemente, con una nuova traduzione (di Martina Testa), dalla casa editrice Sur nel 2024 ed è dunque facilmente reperibile.

 

(Presentazione della nuova edizione per i tipi Sur) “La parabola del seminatore” è l’opera della maturità di Octavia Butler. Echi biblici, temi sociali e ambientalismo si fondono con ritmi e atmosfere da romanzo d’avventura, dando vita a un personaggio femminile profetico e modernissimo che incarna inquietudini, sfide e speranze del nostro tempo.

In un’America del futuro devastata dal cambiamento climatico, in cui le risorse si stanno esaurendo e il caos ha preso il sopravvento sulla legge, solo alcune piccole comunità isolate conservano una parvenza di ordine sociale, difese da muri contro le bande di disperati che saccheggiano, violentano, incendiano. È in una di queste enclave che vive Lauren, un’adolescente dalle straordinarie doti percettive, empatica e determinata, sempre più preoccupata per la violenza che preme da fuori e a cui il mondo degli adulti – primo fra tutti suo padre, il pastore battista della comunità – sembra impreparato. Nei quaderni dove annota le sue osservazioni, Lauren dà progressivamente forma a una nuova religione, «il Seme della Terra», fondata sull’idea del cambiamento, dell’adattabilità e dell’iniziativa individuale. Quando gli ultimi argini al dilagare della violenza verranno meno, sarà il Seme della Terra a sostenere Lauren e i suoi compagni in un rocambolesco esodo verso la salvezza.

 

Octavia E. Butler

L’autrice. Octavia E. Butler, nata nel 1947, Pasadena (California), è stata una delle più importanti scrittrici americane di fantascienza. É stata cresciuta dalla madre e dalla nonna. Malgrado la borsa di studio MacArthur - che le ha reso la vita più facile negli anni successivi -, ha faticato per decenni per imporsi come autrice di riferimento (scrivendo di notte e lavorando di giorno come televenditrice, ispettrice di patatine e lavapiatti), quando i suoi romanzi distopici che esploravano i temi dell'ingiustizia dei neri, del riscaldamento globale, dei diritti delle donne e della disparità politica non erano, a dir poco, richiesti dal mercato.
Con i suoi romanzi e i suoi racconti ha vinto più volte l’Hugo Award e il Nebula Award, i massimi riconoscimenti del mondo anglosassone per la letteratura d’immaginazione. Nel 2000 le è stato attribuito il PEN American Center Lifetime Achievement Award in Writing. La sua opera è apprezzata per la prosa snella, i forti protagonisti e le indagini sociali inserite in storie che spaziano da un lontano passato a un lontano futuro. Oltre ai romanzi Legami di sangue (2020) e La parabola del seminatore (2024), SUR ha pubblicato la raccolta di racconti La sera, il giorno e la notte (2021).

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1 luglio 2024 1 01 /07 /luglio /2024 06:16
Edward Abbey, Desert Solitaire, Baldini&Castoldi 2015

Desert Solitaire. Una stagione nella natura selvaggia (Desert Solitaire: A Season in the Wilderness, nella traduzione di Stefano Travagli) di Edward Abbey in anni abbastanza recenti è stato molto opportunamente riproposto da Baldini&Castoldi /nella collana "Romanzi e racconti, nel 2015), dopo una prima edizione praticamente introvabile per i tipi di Muzzio, nel 1993, con il titolo di "Deserto solitario".
Questa era la presentazione di quella prima edizione: 
"Deserto solitario di Edward Abbey, un fecondo scrittore statunitense di “letteratura naturalistica”, è il racconto eloquente, amaro e stravagante di una stagione trascorsa dall’autore, in qualità di ranger, a sorvegliare l’Arches National Park nello stato dello Utah (area di Moab), uno dei luoghi più caratteristici e più selvaggi dell’immenso e variegato paesaggio del Nord America: la regione dei canyon. All’epopea dell’esperienza narrata dall’autore, alla fine degli anni 160, questi territori ancora 'selvaggi' cominciavano ad essere investiti dal turismo 'su scala industriale' e ad essere minacciati dal progetto di una diga che ne avrebbe sommerso una parte, assieme alle ineguagliabili forme di vita animali e vegetali che l’abitavano. Il libro è per questo diventato negli Stati Uniti un documento di denuncia attorno a cui si è raccolto il movimento degli ambientalisti per difendere la natura dei parchi. Il libro non è però un semplice resoconto: è un racconto vero, di una notevole cifra letteraria, che contiene molte altre storie – di indiani e cow-boy, di cercatori di uranio e di cavalli selvaggi – che sfumano nella favola e nel mito; è un inno poetico e ribelle, di rara ispirazione, alla natura selvaggia; è un manifesto dai toni anarchici e estremi sui rapporti dell’uomo con l’ambiente naturale.
Scrive Abbey nella sua breve introduzione al volume:
"Una decina di anni fa [la sua opera fu pubblicata per la prima volta nel 1968] decisi di andare come ranger stagionale in un luogo chiamato Arches National Monument, vicino alla cittadina di Moab, nello Utah sudorientale. Il motivo della decisione non è più importante, ciò che ho trovato lì è l'argomento di questo libro" (p. 7)
Si trattò per lui di un'esperienza durata un semestre (dal 1° aprile sino al 30 settembre). 
Ritornò a fare lo stesso lavoro anche l'anno successivo.
Sarebbe tornato anche per il terzo anno e forse lo avrebbe fatto anche per tutti gli anni successivi, ma rinunciò.
Perchè? Ce lo dice lo stesso Abbey:
"... gli Arches, un luogo primitivo quando vi ero stato la prima volta, sfortunatamente avevano conosciuto sviluppo e sfruttamento [che per lui furono intollerabili da affrontare] e dovetti rinunciare" (ib.).
La bellezza della natura selvaggia era stata deturpata e, negli anni successivi, lo sarebbe stata ancora di più, con progetti dissennati di sviluppo turistico, di sfruttamento minerario e idroelettrico, con la costruzione di una diga che, messa in opera, avrebbe stravolto l'aspetto originario dei canyon, occultando per sempre alcune delle più magnifiche bellezze naturali.
Abbey riferisce di essere tornato comunque, a distanza di molti anni, negli stessi luoghi, di aver fatto un tour completo e di essersi, infine, fermato per una terza stagione che gli diede modo di registrare i cambiamenti drammatici avvenuti in sua assenza.

Edward Abbey, Deserto Solitario, Muzzio

L'essenza del libro è tratta dalle pagine di diario che Abbey ha riempito febbrilmente in queste tre stagioni, mentre altri capitoli sono stati costruiti con il ricordo di escursioni effettuate in altri momenti e con digressioni/riflessioni di vario tipo, tra le quali non mancano delle critiche intense e dure contro il suo datore di lavoro stagionale, cioè l'amministrazione del National Park Service (che fa capo al Dipartimento dell'interno del Governo degli Stati Uniti).
La sua esperienza ripetuta nel corso degli anni è stata di solitudine vivificante nel cuore del deserto (all'interno di scenari di una bellezza grandiosa), alloggiato in una piccola roulotte, con un incarico da ranger che comportava per lui un minimo di impegno giornaliero per alcuni compiti di routine e che, per il resto del tempo, lo lasciava libero di contemplare, di riflettere, di meditare, di osservare nei dettagli più minuti la flora e la fauna e di compiere anche delle escursioni.
Una posizione invidiabile quella di Abbey, per alcuni aspetti, a condizione di saper tollerare la solitudine.
L'esperienza della wilderness è anche un'esperienza di solitudine e di capacità di star da soli.
In questo senso, la scrittura (e l'esperienza che ad essa è sottesa) di Abbey si avvicinano molto a "Walden, ovvero la vita nei boschi" di Henry David Thoreau che è un classico sotto molti punti di vista e, tra le tante cose, anche dell'anarchismo libertario.
Ma, in molti passaggi, c'è anche molto di Twain, a mio parere, e soprattutto del suo personaggio iconico Huckleberry Finn che si vede emergere chiaramente nel lungo capitolo che descrive la discesa del Colorado, compiuta da Abbey su due canotti di gomma attrezzati per un'avventura di una settimana, assieme ad un amico. 
O anche la venatura lirica e struggente in alcune descrizioni paesaggistiche e naturalistiche che fa pensare alla prosa di Cormac McCarthy, quando i suoi personaggi agiscono al cospetto di una Natura che è assieme bellissima e intangibile, quasi crudele in questo distacco dagli Umani.
Vi è una forte vena di anarchismo libertario, quando Abbey - per esempio - invita coloro che vorranno visitare l'"Arches National Park" di lasciare l'auto alle soglie del parco e di avventurarsi a piedi ad esplorare, facendo ciò che possono (e vedendo ciò che possono, di conseguenza) soltanto muovendosi sulle proprie gambe. Ma questa vena si ritrova anche nell'invettiva che egli lancia contro coloro che vorrebbero costruire più strade asfaltate e più piazzole di sosta all'interno del Parco (il suo, ma anche di altri), per consentire forme di turismo facile e superficiale, in altri termini "consumistico" (da ciò discende il corollario che alcuni dei luoghi più belli dovrebbero essere mantenuti "segreti", anche se la la società dei consumi fa di tutto per evitare ciò).
Abbey sarebbe stato sicuramente tra quelli che qui in Italia si sarebbero schierati fermamente contro l'uccisone dell'orso "killer", come del resto lui accetta pacificamente che, nel corso della sua permanenza nel deserto, possa imbattersi in un puma. Simili accidenti fanno parte della wilderness e non si può bere dal calice di essa senza tener conto di eventuali pericoli (ed eventualmente affrontarli, o patirne le conseguenze), come anche smarrirsi nel deserto, morire per disidratazione o altro.
Quella di Desert Solitaire è una lettura assolutamente godibile ed è possibile imbattersi in alcuni passaggi descrittivi che - come ho già detto - sono fortemente lirici.
E, per tutti i motivi illustrarti, è anche un testo di formazione per il lettore che legge i resoconti e le narrazioni delle tre stagioni di Abbey nel deserto sudorientale dello Utah.
Infine, aggiungerei come postilla, non si può leggere l'opera narrativa successiva di Abbey, pubblicata la prima volta nel 1975, "The Monkey Wrench Gang" (I Sabotatori, Meridiano Zero, 2001) senza aver letto prima Desert Solitaire, poichè proprio qui si ritroveranno tutte le tematiche e le motivazioni che spingono i quattro protagonisti a diventare sabotatori per contrastare lo sfruttamento efferato del deserto e il sovvertimento (nonché l'addomesticamento) della natura selvaggia, voluto dal Governo centrale e dalle multinazionali.
La filosofia dei quattro sabotatori trae radici e alimento proprio dalle pagine di Edward Abbey e le loro imprese diventarono un "classico" della nuova ondata del movimento ecologico statunitense e del mondo (e, per alcuni versi, anche del cosiddetto "ecoterrorismo").


(Risguardo di copertina) "Desert solitaire" è diventato un libro di culto sin dalla sua pubblicazione, nel 1968. Un racconto provocatorio e mistico, arrabbiato e appassionato, in cui Edward Abbey ci restituisce la sua esperienza di ranger nell'Arches National Monument, nel Sudest dello Utah, catturandone l'essenza e trasmettendoci il desiderio di vivere nella natura e conoscerla nella sua forma più pura: silenzio, lotta, bellezza abbagliante. Ma "Desert solitaire" è anche il grido angosciato di un uomo pronto a sfidare il crescente sfruttamento operato dall'industria petrolifera, mineraria e del turismo. 
Sono trascorsi quasi cinquant'anni, e le osservazioni di Abbey, le sue battaglie, non hanno perso nulla della loro rilevanza. Anzi, oggi più che mai, "Desert solitaire" ci chiama a combattere, mettendoci di fronte a un'ultima domanda fondamentale: riusciremo a salvare ciò che resta dei nostri tesori naturali prima che i bulldozer manovrati dal profitto colpiscano ancora?

Edward Abbey

 

L'autore. Edward Abbey,1927, Home (Pensylvania) e deceduto a Oracle (Arizona) nel 1989.  
Ha studiato presso l'Università del New Mexico e all'Università di Edimburgo. 
Filosofo, saggista e romanziere americano, esordì come scrittore negli anni Sessanta dopo aver lavorato a lungo come guardia forestale nei parchi nazionali di mezza America. Arrivato al successo con The brave Cowboy, che divenne un film interpretato da Kirk Douglas, con The Monkey Wrench Gang fu consacrato eroe della nuova ondata ecologista americana, diventando al contempo autore di primo piano nel panorama letterario americano.

 

Edward Abbey, I Sabotatori, Mneridiano Zero

Più di vent’anni dopo averlo acquistato, mi sono accinto alla lettura del romanzo cult di Edward Abbey, I Sabotatori (titolo originale: The Monkey Wrench Gang), pubblicato da Meridiano Zero nel 2001.
Quando l'ho preso tra le mani era ben stagionato, con le pagine ingiallite a dovere e, finalmente, l'ho aperto, l'ho sfogliato e finalmente mi ci sono immerso, avendo la consapevolezza di avere tra le mani un libro cult, un vero prodotto d’annata, scritto da un ecologista ante litteram (ma anche predicatore dell’ecoterrorismo), quando ancora ben poco si parlava di tutela dell’ambiente, con l’eccezione, ovviamente di un classico come “Primavera silenziosa” di Rachel Carson.
Il primo capitolo mi ha fatto intendere che io e questo libro saremmo andati d’accordo!
Ho sentito sin da subito che sarebbe stato il mio libro di lettura preferito nelle mie attese in auto!


(Presentazione) Un medico. La sua infermiera nonché fidanzata. Un giovane reduce specializzato in demolizioni. Un mormone con tre mogli. Un improbabile quartetto di aspiranti guerriglieri, eco-terroristi decisi a salvare quel che resta della natura di Utah e Arizona, del selvaggio paesaggio del deserto. Intraprenderanno una lunga serie di sabotaggi e di avventurose incursioni fino al progetto più ambizioso: far saltare la diga del Glen Canyon, intollerabile scempio ambientale.
Praticamente sconosciuto in Italia, il polemista-filosofo-naturalista-scrittore Edward Abbey (1927- 1989) è considerato una specie di eroe dal movimento ambientalista e dalla controcultura americana. La sua lotta appassionata in difesa della wilderness ha raccolto schiere di ammiratori entusiasti e di detrattori imbestialiti. Nato durante la Grande Depressione in una sperduta fattoria dei monti Appalachi, in Pennsylvania, all’età di 17 anni si mette sulla strada e viaggia per il Sud Ovest, in autostop e su carri merci, restando folgorato dalla bellezza selvaggia di quei luoghi desertici da cui per tutta la vita non riuscirà mai più a staccarsi. Abbey esprime una ribellione radicale contro il concetto imperante di antropocentrismo. La guerra che l’uomo ha dichiarato alla natura – afferma l’autore – nasce dalla terrificante percezione che essa è assolutamente indifferente al destino dell’uomo. Inutile attribuire valenze etiche alla natura, un processo efficiente, brutale, spietato e insieme pulito e meraviglioso. È un luogo magico in cui si può entrare solo patteggiando costantemente la propria presenza.

Nel ‘75 dà alle stampe quello che diverrà il suo best seller: The Monkey Wrench Gang (I Sabotatori), dove – tra il serio e il faceto – propone una sorta di contro-vandalismo attivo contro il vandalismo perpetrato dal cosiddetto progresso contro la natura, che dopo l’ignoranza distruttiva dei pionieri deve subire le pratiche distruttive coscienti delle industrie. In questo libro facile e scanzonato, Abbey abbandona la contemplazione e la disobbedienza civile di Thoreau per indossare definitivamente gli abiti di Ned Ludd.
 

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22 maggio 2024 3 22 /05 /maggio /2024 10:26
Domenico Cacopardo, Agrò e il Maresciallo La Ronda, Marsilio

Mi è capitato di trovarmi per le mani, qualche tempo fa il poliziesco, Agró e il Maresciallo La Ronda, pubblicato da Marsilio (Le Farfalle), nel 2013, di cui è autore Domenico Cacopardomagistrato e scrittore.
L'ho trovato di lettura gradevole, liscia, scorrevole, a tratti sapida: un piacevole intrattenimento.
Appartiene questa indagine ad una serie composta da una decina di romanzi polizieschi che vedono nei panni di protagonista il sostituto procuratore della Repubblica Italo Agrò. 
Qui, ci troviamo davanti ad un antefatto (o, come si tende a dire oggi, di un “prequel”) in cui il futuro sostituto procuratore è ancora uno studentello di legge e, mentre si trova in vacanza estiva, nel suo piccolo paese del Messinese, viene chiamato dal Maresciallo La Ronda, al comando della locale stazione dei Carabinieri, perché l’aiuti a stendere dei rapporti su di un caso di omicidio (inizialmente solo a metterli in bella forma) 
Siamo nel 1976, in un’epoca in cui erano ancora assenti del tutto, telefonini e altri dispositivi elettronici, nel tempo inoltre in cui i documenti venivano trasmessi come “cablogramma”: e questo ha il suo fascino, perché ci parla di un’epoca lontana che i più anziani di noi hanno vissuto.
L’”avvocatucolo” si rivela, tuttavia, sagace e pieno di idee e il pur ruvido Maresciallo prende ad apprezzarlo e ad interpellarlo sempre più spesso e negli orari più strani per proficui “scambi di idee”: sicché il giovane Agrò si ritrova sempre più coinvolto in un’indagine "non autorizzata", sul cui evolversi  manterrà - come si conviene - il dovuto riserbo nei confronti di amici e parenti, ma anche della sua morosa.
Senza nemmeno saperlo, poiché di Cacopardo non avevo ancora letto sinora alcun romanzo, mi sono imbattuto per puro caso nella prima avventura di una serie.
Il libro, in ottime condizioni, me lo ha proposto il mio edicolante a metà prezzo.

 

(Risguardo di copertina) Sant'Alessio Siculo, fine estate 1975. Il futuro dottor Italo Agrò è ancora studente di legge nell'università di Napoli e sta terminando le vacanze nel suo paese d'origine. Il maresciallo dei Carabinieri, Augusto La Ronda, che ha già in passato chiesto a Italo di aiutarlo a stilare qualche rapporto particolarmente delicato, lunedì 7 settembre, lo fa prelevare in un bar di Letojanni, dov'era con gli amici, e condurre in caserma: nel pomeriggio è stato ritrovato tra i ruderi della chiesa di Sant'Agostino il cadavere di Biagio Mudaita, un giovane che lavorava nell'amministrazione della falegnameria paterna. Tra i maricaretti familiari, il mare della sua terra, il passaggio definitivo dall'adolescenza all'età adulta e gli aromi di una Sicilia lussureggiante, Italo Agrò non si limita a correggere il rapporto che il maresciallo intende inviare alle superiori autorità: si appassiona al caso e, in modo riservato, ma non troppo, collabora con il maresciallo con suggerimenti e riflessioni che lo aiutano nelle indagini, mentre si consumano quegli ultimi giorni di vacanza, durante i quali Italo inizia la sua storia d'amore con Irene Mangiacola, detta Nené.

 

Domenico Cacopardo

L’autore. Domenico Cacopardo, nato nel 1936 a Rivoli in Piemonte, ma di origini siciliane, è uno scrittore italiano. Laureato in giurisprudenza, è vissuto in varie città italiane condotto dagli impegni professionali: Consigliere di Stato sino al 2008, è stato anche Magistrato per il Po a Parma e Magistrato alle Acque a Venezia. Collabora con numerose testate giornalistiche nazionali e locali. 
L'endiadi del dottor Agrò è il primo episodio della fortunata serie del sostituto procuratore Italo Agrò, di cui sono usciti per Marsilio anche Agrò e la deliziosa vedova Carpino (2010), Agrò e la scomparsa di Omber (2011). Tra le sue opere, pubblicate sempre con Marsilio, ricordiamo anche Il delitto dell'Immacolata (2014), Semplici questioni d'onore (2016). Nel 2022 esce per Ianieri edizioni il romanzo giallo Pater.
Il dottore Agrò, sostituto procuratore della Repubblica, ha preso forma con il romanzo di successo “L'endiadi del dottor Agrò” che é divenuto presto uno dei suoi più fortunati personaggi: il sostituto procuratore Italo Agrò, alter ego dello scrittore, che da alcuni anni lo anima durante il programma "il taccuino del dottor Agrò", in onda ogni sabato pomeriggio sull'emittente nazionale Radio 24.
Agrò è poi tornato anche in alcuni dei successivi romanzi.
Giusto a titolo di curiosità, citiamo qui che Domenico Cacopardo ha avuto una controversia con Andrea Camilleri. Convinto di aver subito un affronto da Questi, che - nella sua opera Il nipote del Negus - ha voluto chiamare un personaggio col nome di Aristide Cacopardo, ha deciso di citare in tribunale l'autore del Commissario Montalbano sentendosi diffamato.
Il punto della discordia era da attribuire ad una frase del libro di Camilleri che descriveva il Cacopardo del romanzo come «persona attendibile anche se un poco chiacchierato (è fissato di essere un grande scrittore e consuma il suo stipendio pubblicando romanzi a sue spese)».
Cacopardo chiese in tribunale di sospendere la pubblicazione de Il nipote del Negus e di ritirarne tutte le copie invendute: il giudice del Tribunale civile di Parma respinse le sue richieste. 


https://www.cacopardo.it/
https://it.m.wikipedia.org/wiki/Domenico_Cacopardo

(22 aprile 2023)

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14 maggio 2024 2 14 /05 /maggio /2024 06:50
Davide Longo, Un mattino a Irgalem

Un mattino a Irgalem di Davide Longo (Feltrinelli UEF, 2019) tra i primi romanzi di Davide Longo, è stato in origine pubblicato da Marcos y Marcos nel 2001.
E ha visto successive edizioni con Fandango e poi con Feltrinelli (Zoom), prima di approdare alla UE.
È ambientato in Etiopia e ad Addis Abeba nel periodo di intervallo tra la fine della Guerra d’Etiopia e l’inizio della II Guerra Mondiale, nei brevi anni in cui si consolida (ma nemmeno poi tanto) la dominazione italiana in quei territori
Pietro, avvocato e appena promosso a tenente di complemento, viene inviato proprio nella qualità di avvocato militare ad Addis Abeba per fare da difensore d’ufficio di un certo Prochet che, nelle sue funzioni di “esploratore”, ha compiuto delle atrocità sia nei confronti degli Etiopi (ribelli e non) sia nei confronti dei suoi stessi connazionali, azioni talmente efferate di cui nessuno intende parlare esplicitamente
Pietro (di cui non conosceremo mai il cognome) si trova immerso in una realtà in cui le regole del vivere civile sono come sospese, dietro l’esile facciata di ordine della disciplina militare.
Il suo difeso non parla e non si confronta: non intende collaborare in alcun modo alla costruzione di una linea difensiva qualsivoglia.
Prochet ci appare come una specie di colonnello Kurtz in Cuore di Tenebra: è questa la suggestione letteraria che ne ho tratto, anche se qualcuno tira in ballo, come antecedente letterario illustre, Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, di recente ripubblicato da Adelphi, pubblicato la prima volta nel 1947 e vincitore della prima edizione del Premio Strega
Pietro è spaesato e sembra perdere in una atmosfera che è, allo stesso tempo, surriscaldata e oziosa/languida ogni usuale punto di riferimento e in qualche modo si lascia contaminare.
É un romanzo che è difficile da classificare: non è un noir, non è un mistery; non è un giallo e nemmeno un legal thriller di stampo militare.
Mi è sembrato piuttosto un bel romanzo che affresca magnificamente un periodo storico e l’anima nera delle velleità coloniali del regime fascista, con una conclusione che non è nemmeno una conclusione ma che si pone come una nemesi che colpisce il Giusto e l’Ingiusto allo stesso modo
Davide Longo è un autore che mi ritrovo ad apprezzare sempre di più e di cui sto a poco a poco leggendo tutti i romanzi

 

(Quarta di copertina) “Uomo sbagliato, posto sbagliato, tempo sbagliato". È questo lo stato d'animo di Pietro, giovane avvocato di Torino, appena promosso tenente nel Regio esercito italiano. Regio di nome, fasullo, fascista di nerbo, fin troppo reale. Difatti: l'anno di disgrazia è il 1937, il luogo della tragedia è l'Etiopia, dove è appena "tornato l'impero dei colli fatali", "eia-eia-alalà" e tutto il resto della farsa macabra. Il potere militare in orbace, o qualsivoglia imitazione del medesimo, affida a Pietro il classico caso che nessun avvocato vorrebbe nemmeno da morto. Ritrovarsi scaraventato 'ab imperio' a migliaia di chilometri da casa, a difendere l'indifendibile. Sul sergente Prochet, duro e puro comandante dei gruppi esploratori etiopi, grava infatti l'accusa di omicidio. Un momento, un momento: omicidio nel mezzo di una brutale guerra coloniale? Omicidio in un contesto che fa dell'omicidio stesso la propria divinità? A quanto pare, però, il sergente Prochet è andato un minimo sopra le righe. Un'incursione in un remoto villaggio nel deserto si è risolta in un bagno di sangue talmente efferato da fare impallidire perfino il Teatro del Grand Guignol. Pietro deve quindi difendere l'imputato che non solo non parla ma che tutti quanti - dai vertici del fascio ai disperati sopravvissuti etiopi - vogliono morto. Eppure, nulla è come appare.

 

Davide Longo

L’autore. Davide Longo, nato nel 1971 a Carmagnola, vive adesso  a Torino dove insegna scrittura presso la Scuola Holden. Tiene corsi di formazione per gli insegnanti su come utilizzare le tecniche narrative nelle scuole di ogni grado. 
Tra i suoi romanzi ricordiamo, Un mattino a Irgalem (Marcos y Marcos, 2001), Il mangiatore di pietre (Marcos y Marcos 2004), L’uomo verticale (Fandango, 2010), Maestro Utrecht (NN 2016), Ballata di un amore italiano (Feltrinelli 2011). Nel 2014 ha scritto il primo romanzo della serie che ha come protagonisti il duo Arcadipane-Bramard Il caso Bramard (Feltrinelli 2014, Einaudi 2021), cui è seguito il secondo Le bestie giovani (Feltrinelli 2018, Einaudi 2021), il terzo episodio della serie Una rabbia semplice (Einaudi 2021), il quarto La vita paga il sabato (Einaudi 2022) e il quinto, Requiem di provincia (Einaudi, 2023).
Nel 2017 ha scritto la sceneggiatura per il film “Il Mangiatore di Pietre”, interpretato da Luigi Lo Cascio.

Ennio Flaiano, Tempo di uccidere, Adelphi

Ennio Flaiano, Tempo di uccidere, Adelphi (Fabula), 2020

 

Un romanzo sconcertante, tanto più in pieno clima neorealista, che ha come sfondo non la "terra ideale dei films Paramount", ma il paese triste, ingrato, ambiguo, sfuggente delle iene.

«Quando la campagna sarà finita non pochi si precipiteranno a scrivere dei libri» annota Flaiano nel febbraio del 1936, mentre, sottotenente del Genio, partecipa alla guerra d'Etiopia. «Già immagino il contenuto e i titoli: "Fiamme nel Tigrai", "Africa te teneo", "Tricolore sull'Amba"!». Non a caso, attenderà dieci anni prima di ricavare da quella sofferta esperienza - fatta di sete e stanchezza, caldo e paura - un romanzo. Un romanzo sconcertante, tanto più in pieno clima neorealista, che ha come sfondo non la «terra ideale dei films Paramount», ma il paese triste, ingrato, ambiguo, sfuggente delle iene (e che dunque cela di necessità «qualcosa di guasto»), e al centro una vicenda «assolutamente fantastica»: un delitto futile e fatale, che scatena in chi l'ha commesso un corrosivo delirio. E gli trasmette il morbo di un «impero contagioso», di un senso di colpa inscindibile dal rancore, di una pietà commista a disprezzo per un mondo ignoto, l'Africa - «lo sgabuzzino delle porcherie», dove gli occidentali vanno «a sgranchirsi la coscienza».

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20 aprile 2024 6 20 /04 /aprile /2024 09:41
Robin Cook, Sindrome fatale (Toxin), Sperling&Kupfer

Sindrome fatale (Toxin, traduzione di Linda De Angelis) è un thriller medico scritto nel 1998 dallo scrittore statunitense Robin Cook, pubblicato in Italia da Sperling&Kupfer, e mi sono ritrovato a leggerlo di recente, perchè, animato da un'improvvisa voglia di uno dei libri di questo autore, sono andato a pescarne uno in giacenza nella mia libreria e messo da parte appunto, per questo improvviso tipo di voglia.
Robin Cook è uno scrittore che coltivo di quando in quando.
Non di quelli i cui libri mi precipito ad acquistare in libreria appena sono usciti, no.
Solitamente non ricevono la mia priorità.
Li acquisto se ne ho la possibilità se ne trovo a prezzo scontato.
Nel corso del tempo ne ho infatti trovati diversi attraverso le vendite remainder.
Sono dei libri con titoli incisivi e inquietanti ero roboanti assieme, tipo “Febbre”, “Morbo”, “Epidemia”, “Contagio”, “Pandemic”, e così via (in calce a questo post sono elencati tutti i suoi titoli).

Di questi romanzi acquistati a prezzi scontatissimi e di cui ho fatto riserva, ogni tanto ne pesco uno e lo leggo.
Devo dire anche che le trame di Robin Cook, in generale, mi acchiappano (forse anche per via della mia formazione medica), perché in generale introducono il lettore immediatamente all’interno di una questione scottante che, a seconda dei casi, può riguardare la sanità pubblica e le sue storture, le malversazioni di sistemi corrotti le manipolazioni di Big Pharma ed altre tematiche scottanti e attuali.
In generale, si tratta di romanzi estremamente documentati che, senza ombra di dubbio, aprono la strada a delle riflessioni e aiutano a porsi degli interrogativi.
In questo romanzo, ad esempio, si affronta il tema delle aziende che forniscono il mercato alimentare di carni macinate, il problema della loro conservazione e del loro possibile inquinamento da parte di pericolosi agenti patogeni, ma anche delle collusioni tra i produttori e gli organismi statali di controllo.
Vi si parla anche delle tossinfezioni sostenute da un particolare ceppo di Escherichia coli che si diffondono attraverso le carni macinate non ben cotte (e possibilmente già contaminate in origine a causa degli inconvenienti procedurali legati alla gestione delle macellazioni su grande scala) e che negli Stati Uniti - al tempo della scrittura di questo romanzo - producevano diverse centinaia di morti all’anno, soprattutto come complicazione della sindrome tossica correlata (la cosiddetta Sindrome emolitica-uremica). 
Leggendo alcune pagine di questo “Sindrome fatale” (il cui titolo inglese tra l’altro è “Toxin”), viene indubbiamente voglia di non mangiare più le carni rosse, soprattutto quelle macinate che vengono dalla grande distribuzione.
Per Robin Cook scrivere è un modo per denunciare le malversazioni, le storture e le collusioni, ma anche per sensibilizzare il grande pubblico su queste grandi tematiche di sanità pubblica, sugli usi distorti dei progressi tecnologici in Medicina e sulla necessità di un superamento dei problemi segnalati attraverso l’adozione di comportamenti più responsabili.
Dal punto di vista stilistico, tuttavia, i romanzi di Robin Cook lasciano un po’ a desiderare (benché egli abbia venduto milioni e milioni di copie), soprattutto perché quando lo spunto tematico si esaurisce egli introduce nella macchina narrativa elementi che, essendo sono più da action thriller, a mio modo di vedere, fungono più da riempitivo e hanno uno scarso valore letterario.
Ciò non sminuisce il fatto che gli spunti narrativi siano sempre più che buoni.
E quindi mi sento di poter perdonare le sue cadute stilistiche.

 

Scrive l’autore in exergo:
Questo libro è dedicato alle famiglie che hanno sofferto per il flagello dell’Escherichia Coli 0157:H7 e per altre malattie contratte attraverso il cibo

 

Trama. Kim Reggis è un cardiochirurgo che non solo ha divorziato da poco, ma ha anche perso la posizione di primario del proprio reparto. E i suoi guai non finiscono qui, perché la figlioletta Becky viene colpita da una grave intossicazione alimentare. L'inesorabile progredire della sindrome, che porta alla morte Becky a causa del batterio E. coli, lo spinge a un'indagine dagli esiti agghiaccianti. L'industria della carne e l'organismo statale preposto al controllo risultano infatti legati da una segreta complicità ai danni dei consumatori e chi volesse far luce su questa sporca faccenda potrebbe rimetterci la vita.

 

Robin Cook (dal web)

L'autore. Robin Cook (New York, 4 maggio 1940) è un medico e scrittore statunitense, affermato autore di gialli, è considerato il padre dei thriller medici, e cioè dei gialli di argomento scientifico-biologico.
Si è laureato in medicina alla Columbia University e specializzato ad Harvard. Decise di abbandonare la professione dopo aver scoperto che in un ospedale in cui lavorava la cartella clinica di un paziente ricoverato da tre settimane non era stata ancora letta. Cominciò così a scrivere thriller per divulgare i maggiori problemi della sanità e della ricerca medica, temi che altrimenti non avrebbero appassionato. Dopo un primo tentativo con Year of the Intern, ottiene successo con Coma dal quale viene tratto il film Coma profondo, interpretato da Michael Douglas.
Cook ha scritto una trentina di libri che hanno ispirato anche altri film, tutti tradotti in italiano tranne il primo. Nei suoi romanzi Cook affronta diverse tematiche: dall'ingegneria genetica alle intossicazioni alimentari, dall'inquinamento chimico alla clonazione umana e qualcuno dei suoi lavoro appartiene al filone della fantascienza.
Ha venduto in tutto il mondo oltre 100 milioni di copie.

Cook scrive i suoi libri con l'assistenza di altri medici e specialisti della professione. 

 

Le opere
1972: Year of the Intern
1977: Coma (Coma)
1979: L'ombra del faraone (Sphinx)
1981: Cervello (Brain)
1982: Febbre (Fever)
1983: Al posto di Dio (Godplayer)
1985: Sotto controllo (Mindbend)
1988: Progetto di morte (Mortal Fear)
1989: La mutazione (Mutation)
1990: Sonno mortale (Harmful Intent)
1993: Vite in pericolo (Fatal Cure)
1993: Morbo (Terminal)
1996: Alterazioni (Acceptable Risk)
1997: Invasion (Invasion)
1998: Sindrome fatale (Toxin)
2000: Esperimento (Abduction)
2001: Shock (Shock)
2003: La cavia (Seizure)
2013: In caso di morte (Death Benefit)
2013: Nano
2014: Cell
2015: Host
2017: Charlatans
Serie Marissa Blumenthal
1987: Contagio (Outbreak)
1991: Segni di vita (Vital Signs)
Serie Stapleton e Montgomery
1992: Sguardo cieco (Blindsight)
1995: Epidemia (Contagion)
1997: Cromosoma 6 (Chromosome 6)
1999: Vector, minaccia mortale (Vector)
2005: Marker, segnali d'allarme (Marker)
2006: Crisi mortale (Crisis)
2007: Fattore di rischio (Critical)
2008: Corpo estraneo (Foreign Body)
2011: Il segreto delle ossa (Intervention)
2012: La cura (Cure)
2018: Pandemic

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12 gennaio 2024 5 12 /01 /gennaio /2024 07:33
Piero Cipriano, La Società dei Devianti, Eleuthera

Con La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d'ogni sorta (Altre storie di uno psichiatra riluttante), pubblicato da Eleuthera nel 2016,
ho completato la lettura del terzo volume della trilogia dello “psichiatra riluttante” di Piero Cipriano, preceduto da "La Fabbrica della salute mentale: diario di uno psichiatra riluttante" e da "Il manicomio chimico: cronache di uno psichiatra riluttante" (sempre editi da Elèuthera)

Quale sia il progetto che emerge da questi tre volumi così ricchi di contenuti, eppure percorsi da un unico - coerente - filo conduttore, ce lo chiarisce in una breve, ma efficace, sintesi di intendimenti lo stesso Cipriano nell'incipit dell'ultimo capitolo di questo terzo volume della "Trilogia": una dichiarazione di intenti che ha tanto il sapore - mutatis mutandis - di quella poetica ed intimista - eppure di intensa critica sociale dei suoi tempi - di H. D. Thoreau, quando in una delle più celebrate pagine di Walden, ovvero Vita nei boschi, cerca di spiegare a se stesso e ai suoi futuri lettori il motivo della sua scelta di ritirarsi a vivere in maniera semplice in un luogo appartato nella selva, in una capanna da lui stesso costruita. Thoreau rimane pur sempre un fulgido esempio di un pensiero anarco-libertario e credo che Cipriano si possa in qualche collegare a quel tipo di pensiero che io mi sento di condividere profondamente e, del resto, per lui la transizione dalla definizione di sé come psichiatra riluttante a quella di "psichiatra anarchico" è stata naturale e spontanea.

Ma ecco le parole di Cipriano:

"Prima vorrei chiarire perché ho deciso di scrivere questi tre libri: Perché ad un certo punto della mia carriera, ho deciso che non avevo più voglia di fare carriera nel mondo, per lo più fuorilegge (fuorilegge in senso lato, per significare selvaggio, primitivo, ferino, immorale, anetico) della psichiatria, e avevo voglia, al contrario di intraprendere (nel mio piccolo specifico, sull'esempio dei grandi maestri dell'anticarriera psichiatrica, Franz Fanon e Franco Basaglia, per capirci) una carriera ritroso, l'anticarriera del medico mentale che si distrugge come soggetto di sapere e potere ai danni del malato e si ricostruisce come suo alleato" (ib., p. 217)


In questo terzo volume della trilogia, in circa trenta capitoli, Piero Cipriano, basagliano convinto, porta avanti le sue riflessioni che seguono vari filoni con un’attenzione questa volta più accentuata verso diverse forme di devianza e di intolleranza nei confronti dei diversi.
Cipriano si definisce, oltre che seguace delle idee di Franco Basaglia, uno psichiatra “riluttante” nei confronti dell’applicazione di misure contenitive e restrittive nel trattamento di ogni forma di disagio psichico, e quindi si proclama contrario a tutte le pratiche psichiatriche “restraint” (siano esse fisicamente o chimicamente contenitive). In ciò, sicuramente è uno psichiatra non allineato, uno che assieme a pochi altri (eredi di Basaglia, come lui) cerca di praticare una psichiatria che curi e che consenta in maniera autentica di liberare dalle sofferenze, di risolvere le conflittualità e di promuovere percorsi di liberazione.
Porta avanti il suo pensiero con coerenza, in maniera non omologata, incurante del fatto che molti colleghi operanti nell’ambito della psichiatria possano considerarlo un eccentrico (o anche un rompiscatole).
Eppure - e Cipriano ce lo mostra con efficacia - dire di no a certe pratiche omologate, a sistemi curativi pseudoscientifici non è soltanto espressione di coerenza con le proprie idee, ma può portare a dei risultati e può aprire delle crepe in un apparato “curativo” omologato e omologante (non solo nei confronti dei “pazienti” ma degli stessi operatori che vi lavorano), con un’azione di dissenso (alla maniera del melvilliano Bartleby lo scrivano) verso l’imperante “manicomializzazione diffusa” nel territorio che, accanto ai circa trecento mini-manicomi a degenza breve sparsi nel territorio nazionale, vede il proliferare sempre più importante ed imponente di strutture per degenze medio-lunghe, come le CTA oppure di Case di Cura convenzionate che accolgono pazienti psichiatrici per periodi di svariati mesi, funzionanti in base al principio della “porta girevole”.
È un piacere profondo leggere le considerazioni e le riflessioni di Cipriano, poiché egli riesce a realizzare sempre una brillante sintesi tra letture e approfondimenti fatti, film visti e la propria viva e inconfondibile esperienza clinica nella quale s’intravede in filigrana una profonda umanità.
Nelle sue pagine si coglie un vivido percorso di volontà di crescita professionale che si arricchisce di giorno in giorno, dove letture e riflessioni scritte servono a decostruire e a ricostruire di continuo delle buone prassi e a trovare continuamente lo stimolo interiore per porsi delle domande (ed é più importante, sempre, porsi delle domande, nutrire dei dubbi, anziché procedere avendo delle certezze assolute ed irremovibili).
Esperienza quotidiana, letture, studio, confronto e reminiscenza sono tutti elementi che confluiscono nelle scritture diaristiche, nelle riflessioni e nelle narrazioni a volte fiction di Cipriano che, essendo fuori dagli schemi, si definisce (e può essere senz’altro definito) uno “psichiatra anarchico”.
Non manca - come nei due precedenti volumi della “trilogia” - un ricco apparato bibliografico, un vero e proprio pozzo delle meraviglie, che consente ai lettori più esigenti di approfondire dei propri percorsi di lettura o di lasciare che si attivino proficue risonanze intellettuali nel caso quelle letture le abbia già esplorate precedentemente, ma cogliendo l’opportunità di rivisitare alcune tematiche viste in una nuova, originale, sintesi.
Cipriano non è soltanto un neo-basagliano, uno psichiatra riluttante, uno psichiatra anarchico (o anarcoide), ma è anche un esploratore impenitente che cerca di venire fuori dalle sue personali contraddizioni, trovando una propria strada che, per successive approssimazioni, lo porta a vivere sempre più coerentemente la propria professione.
Non vedo l’ora di leggere gli altri suoi libri che scaturiscono appunto da questa continua ed indefessa ricerca che nella sua più recente evoluzione è approdato ad un interessamento nei confronti della neo-psichedelia e del potere curativo di certe pratiche rituali messe in atto nelle culture tradizionali e che, dunque, in questa sua più recente evoluzione di pensiero e di interessi culturali si allinea con i grandi psiconauti del nostro tempo (di cui il nostro Giorgio Samorini è un rappresentante importante nonchè portavoce di altri studiosi del settore).

Ma, prima di concludere, diamo voce a Piero Cipriano che, in un paragrafo sintetico e denso, ci spiega chi e cosa è uno psichiatra riluttante.

"Chi è, oggi, uno psichiatra riluttante?
Uno che non accondiscende ai dogmi della psichiatria e alle sue pratiche, quasi sempre repressive. Uno psichiatra critico, radicale. Non ho trovato di meglio per definirmi. Non sono il primo e spero di non essere l'ultimo. Anzi, lo so di essere in buona compagnia. Eppure per molti anni, nei luoghi dove ho esercitato il mio mestiere mi sono sentito completamente solo. Come un cane sciolto. O meglio, come un cane in chiesa. Come se fossi rimasto l'ultimo uomo sulla terra. Su pianeta abitato da zombie. E cosa può fare un uomo rimasto solo, su un pianeta disumanizzato, o su un'isola, o in un faro, o in un reparto psichiatrico blindato, se non scrivere, raccontarsi, provare a rimanere se stesso, o, perfino, rimanere vivo, per non lasciarsi andare alla disperazione, e cercare alleati, altri come lui: i riluttanti appunto." (ib.,
p11)

Trovo che queste parole di Piero Cipriano siano bellissime e particolarmente adatte per concludere questa breve recensione: molto meglio che una puntuale disamina capitolo per capitolo delle diverse tematiche trattate con competenza e con forte attitudine critica.


(Risguardo di copertina) "Ho vissuto metà del mio tempo nei luoghi dove si deposita la follia più indesiderata e tutta la possibile devianza dalla norma.
"E ho visto, da questo luogo privilegiato, in che modo gli uomini si trasformano, sia i curanti che i devianti
".
Si chiude con queste crude storie che raccontano il mal di vivere della nostra epoca la trilogia della riluttanza iniziata con "La fabbrica della cura mentale" e proseguita con "Il manicomio chimico".
A partire dalla sua frequentazione quotidiana con la sofferenza psichica, Cipriano si misura con quella stanchezza esistenziale, sbrigativamente definita depressione, che la nostra società antropofaga prima alimenta e poi cerca di etichettare con quel furore diagnostico e categoriale che le è proprio. A ogni deviante la sua etichetta, medica o psichiatrica, ma anche sociologica o giudiziaria, che così diventa una sorta di tatuaggio identitario, un destino imposto da cui tutto il resto deriva: gli obblighi, i percorsi, le scuole, le cure, i farmaci, le prigioni, ciò che ognuno potrà o non potrà fare (ed essere) nella sua vita.

Piero Cipriano (DAL WEB)

L'autore. Piero Cipriano (1968), medico psichiatra e psicoterapeuta, di formazione cognitivista ed etnopsichiatrica, ha lavorato in vari Dipartimenti di Salute Mentale d'Italia, dal Friuli alla Campania, e da qualche anno lavora in un SPDC di Roma. Autore di numerosi saggi sull'argomento, con Elèuthera ha pubblicato «la trilogia della riluttanza», che comprende, insieme a La fabbrica della cura mentale (2022 n.e.), anche Il manicomio chimico (2023 n.e.) e La società dei devianti (2016), oltre a un volume dedicato allo psichiatra che più lo ha influenzato: Basaglia e le metamorfosi della psichiatria (2018).

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1 dicembre 2023 5 01 /12 /dicembre /2023 06:20
Piero Cipriano, La fabbrica della salute mentale, Eleuthera

Ho scoperto solo adesso - molto di recente - Piero Cipriano, forse perché - avendo ripreso dopo anni di pensionamento a lavorare in ambito psichiatrico - in una CTA per essere precisi - sto sentendo il bisogno di aggiornamento intellettuale e di contributi critici allo stato attuale della Psichiatria e che diano nello stesso tempo dei colpi all'impero dello Psicofarmaco e di Big Pharma.
Sino ad ieri, in sostanza, non sapevo nulla di Piero Cipriano e, quindi, come sono arrivato ai suoi libri? 
Semplice! 
Ho sentito parlare di lui in una trasmissione su RAI 3 (che è quella gestita al mattino da Nicola La Gioia ed altri che si alternano nel commentare quotidianamente una selezione di articoli culturali comparsi nella stampa e sul web) nel corso della quale il collega Cipriano veniva anche brevemente intervistato (in occasione della recente uscita del suo più recente volume "Ayahuasca e cura del mondo", Politi Seganfreddo Edizioni, 2023) e ho trovato che ciò che egli aveva da dire fosse estremamente stimolante, ed anche critico.

Ho anche percepito che Cipriano si poneva come una voce fuori dal coro.
Di conseguenza, sono passato immediatamente dal dire al fare e ho ordinato alcuni dei suoi volumi disponibili: e subito mi sono immerso nella lettura de "La fabbrica della salute mentale" (Eleuthera, 2012 con una nuova edizione nel 2019). 
Il caso ha voluto (senza che io ne avessi alcuna consapevolezza nel momento in cui l’ho scelto come prima lettura) che si trattasse anche del primo volume della trilogia dello "psichiatra riluttante" che poi è lo stesso Cipriano che si confessa ed espone le sue idee di psichiatra libertario e che dice no (almeno cerca di farlo) all’uso estensivo delle “fasce” nei “moderni” reparti di psichiatria, per non parlare di altri aspetti coercitivi (come l'uso delle sbarre alle finestre o delle porte chiuse a chiave, come è nella maggior parte dei circa 300 SPDC in Italia, salvo poche e lodevoli eccezioni, come ad esempio quella rappresentata dall'SPDC di Ravenna dove gli operatori hanno deciso nel 2021 di passare ad una pratica di cura e assistenziale e di cura no restraint, ma ne esistono altri in tutta Italia, forse una quindicina in tutto).
Finito questo volume  (anzi  sarebbe meglio dire, avendolo "divorato", mi correggo), sono passato alla lettura di quello che è la seconda pietra miliare della trilogia, sempre pubblicato da Eleuthera, ovvero Il Manicomio Chimico
In questo primo approccio,  ho apprezzato la lucidità e la nettezza di scrittura di Cipriano, il suo modo di dire le cose utilizzando registri narrativi diversi tra la puntata diaristica, il saggio breve, le modalità proprie del pamphlet critico e accusatorio (ma sempre documentato): questo apprezzamento scaturisce,  ovviamente, da una condivisione intellettuale di alcune delle tematiche esposte.
Apprezzo la scrittura di Cipriano per il semplice motivo che mi ci rispecchio molto e torno a rivedere le molte battaglie culturali combattute contro i pregiudizi e gli stereotipi, quando vennero fondati i primi servizi per il trattamento delle tossicodipendenze sul finire degli anni Settanta e nessuno sapeva ancora nulla di questa problematica, in assenza persino di una letteratura decente che potesse servire da guida. Ricordo le molte battaglie intraprese anche soltanto per potersi intendere con altri colleghi operanti nello stesso settore e che avevano concezioni delle tossicodipendenze e della loro cura radicalmente diverse. Battaglie che sovente dovevano necessariamente partire da una definizione linguistica degli ambiti di cui dovevamo occuparci e della capacità di sfrondare dal discorso tutte le aggiunzioni e ridondanze connotative legate a termini di comune uso come "droga" e "drogato".
Scrivere serve, se attraverso la scrittura si divulga un pensiero "altro", se si viene letti e se, attraverso ciò, si creano sacche di pensiero alternativo rispetto a prassi consolidate, erronee o fondate su presupposti pseudoscientifici, le quali poi possono diventare caposaldi per un possibile cambiamento di paradigma più estensivo.
E ricordo appunto che, ai tempi della mia pratica pionieristica nel campo delle tossicodipendenze giovanili, scrivevo e scrivevo, quando possibile pubblicavo, coinvolgendo anche altri in questi progetti di scrittura, cercando di dire le cose come stavano, di correggere il tiro, creare degli assessment innovativi e le premesse di buone prassi.
Cipriano è un basagliano convinto, di seconda generazione, decisamente critico nei confronti della cosiddetta "restraint" psichiatria (cioè della psichiatria che pratica la contenzione, a tutti i livelli: porte chiuse e finestre sbarrate, contenimento chimico, uso delle fasce) che, di fatto, dietro un esile paravento di scientificità e di modernizzazione tradisce la spirito della riforma del 1978 che abolì i manicomi vecchia maniera, ma è anche un fervente seguace delle idee e delle pratiche di Tobie Nathan, un altro grande pensatore e clinico (nell'ambito clinico -psichiatrico applicato al presunto "diverso", che pure io apprezzo e che ho letto, traendone molti spunti di riflessione e di ispirazione.
Indubbiamente, sia Basaglia sia Nathan si possono considerare due maestri del pensiero (nel senso più lato), ma anche attivamente propositori di "buone" pratiche eticamente fondate, soccorrevoli, empatiche e attente al benessere effettivo di chi chiede di essere curato, in forme e secondo modalità che siano inclusive e fondate sulla comprensione, in primo luogo e sul desiderio di risolvere i conflitti là dove essi si sono generati.
La lettura di alcuni capitoli de La Fabbrica della Salute mentale mi ha indotto a riprendere alcune delle pagine di Basaglia che hanno fatto parte del mio bagaglio formativo e culturale (anche se certamente non incluso nel programma di studi della scuola di specializzazione che frequentai a suo tempo).
Basaglia - se ci si pensa bene - risulta tuttora troppo scardinante rispetto ad un approccio che vuole essere di controllo e sedazione, "clinostatico" come dice Cipriano (con l'ammalato sdraiato sul letto, quindi - fondamentalmente in posizione down o - per tornare a Basaglia - in un'atmosfera in cui si pratica la medicina del "corpo morto") ma di base scarsamente evolutivo in termini di effettivo miglioramento della salute psichica delle persone sofferenti, poiché manca quasi del tutto un approccio "umanistico" e il supporto di strutture territoriali agili ed efficienti che consentano di sviluppare programmi articolati di psichiatria di comunità con una possibilità di presa in carico H24 di un paziente, ma direttamente a contatto del territorio in cui vive, là dove sono sorti i problemi e là dove essi possono essere risolti, soprattutto per quanto concerne conflitti e contraddizioni.
Leggere le considerazioni di Cipriano a distanza di quasi cinquant'anni dal fatidico 1978, anno dell’entrata della legge che sancì l’abolizione dei manicomi e l’avvio di una “nuova” psichiatria, spinge a riflettere sul fatto che, al di là dell'apparente rinnovamento (la chiusura dei manicomi e a partire dal 2013 anche dei Manicomi Giudiziari), si sia creato un mondo di assistenza psichiatrica, fondato su di una "manicomalità diffusa" e del crescere di quello che Cipriano con un ardito neologismo definisce "terricomio" (in cui al posto di pochi giganteschi manicomi abbiamo adesso una quantità impressionante di mini-manicomi sparsi nel territorio a degenza breve come sono appunto gli SPDC oppure a degenza medio-lunga come sono alcune case di cura convenzionate che sono in condizione di tenere i pazienti per lunghi periodi di tempo oppure le cosiddette CTA, ovvero le Comunità Terapeutiche Assistite per pazienti psichiatrici.
Cipriano si definisce uno psichiatra riluttante, prendendo a prestito la parola dal titolo di un libro da lui letto (anche io lo conosco) che è "Il fondamentalista riluttante": un romanzo in cui fa da protagonista un fondamentalista (che tale è stato addestrato ad essere) ma che tuttavia attenendosi alla propria coscienza e a valori etici più universali, non vuole esserlo: ed è per questo motivo un "riluttante", uno psichiatra che lotta quotidianamente per evitare i compromessi e per improntare la propria pratica quotidiana a principi etici irrinunciabili.

 

(quarta di copertina) Nonostante siano passati oltre quarant'anni dall'approvazione della legge che avrebbe dovuto sancire il superamento definitivo della barbarie manicomiale, Piero Cipriano – psichiatra riluttante, come si definisce – ci racconta in presa diretta cos'è oggi un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura. Grazie al suo sguardo impietoso, quei luoghi che avrebbero dovuto garantire una gestione umana ed efficace delle crisi psichiatriche ci appaiono invece come le nuove roccaforti di una rinata «cultura manicomiale» in cui il potere del sano sul malato è ancora gestito in modo arbitrario e burocratico. 
Con alcune notevoli differenze rispetto al passato: se il manicomio tradizionale ricordava un campo di concentramento, l'attuale SPDC ricorda piuttosto una fabbrica, dove il primario è il direttore, lo psichiatra il tecnico specializzato addetto alla catena di montaggio umana e il malato la macchina biologica rotta da aggiustare. 
E quando il farmaco non basta, ecco che tornano le fasce: proprio come nei vecchi manicomi.

 

L’autore. Piero Cipriano (1968), medico psichiatra e psicoterapeuta, di formazione cognitivista ed etnopsichiatrica, ha lavorato in vari Dipartimenti di Salute Mentale d'Italia, dal Friuli alla Campania, e da qualche anno lavora in un SPDC di Roma. 
Autore di numerosi saggi sull'argomento, con Elèuthera ha pubblicato «la trilogia della riluttanza», che comprende, insieme a La fabbrica della cura mentale (2022 nuova edizione), anche Il manicomio chimico (2023, n.e.) e La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante) (2016), oltre a un volume dedicato allo psichiatra che più lo ha influenzato: Basaglia e le metamorfosi della psichiatria (2018).

 

Piero Cipriano. Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante, Eleuthera

Piero Cipriano con Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante (uscito per la prima volta nel 2015 e riedito nel 2023 per i tipi di Eleuthera) prosegue le riflessioni iniziate in “La fabbrica della salute mentale”. 
Si muove anche qui tra memorie personali, riflessioni legate alla sua pratica lavorativa ed anche piccoli voli fantastici in cui elementi della realtà si mescolano con suggestioni letterarie discendenti da alcuni dei suoi autori preferiti.
Cipriano - come già detto - è un basagliano convinto e ciò è un grande pregio in un momento in cui, mentre ci avviciniamo al cinquantenario della Legge che ha abolito i manicomi e, dopo il 2013, anche i manicomi giudiziari, Basaglia e le sue critiche destruenti contro qualsiasi forma di psichiatria costrittiva, sembrano essere dimenticati, anzi radicalmente rimossi dalla coscienza collettiva.
Cipriano, nel suo assetto di seguace delle idee di Basaglia ed essendo contrario a qualsiasi pratica restrittiva sia essa contenzione fisica (uso delle fasce, sbarre alle finestre e porte chiuse)  o farmacologica ad libitum, si definisce anche uno psichiatra “riluttante” nel senso di essere portatore di una voce critica nei confronti delle pratiche imperanti (quelle del farmaco e dei molti modi per esercitare forme di costrizione), all'infuori di poche isole virtuose. 
Più avanti, Piero Cipriano si definirà anche uno psichiatra “anarchico” in quanto sostenitore del principio che uno psichiatra deve essere in condizione di essere in pace con la propria coscienza, dando sempre maggior risalto a decisioni e a modus operandi che siano “etici” anche al costo di scardinare pratiche consuetudinarie.
Le riflessioni di Cipriano sulle prassi psichiatriche attuali sono imbevute di un profondo senso etico.
Per tutti questi motivi, Cipriano è spesso entrato in rotta di collisione con il il sistema dominante e da parte di alcuni si è meritato la nomea di essere uno “psichiatra eccentrico”.
Ho già letto “La fabbrica della salute mentale” e non posso non ammirare la ricchezza di contenuti che traspare da questo secondo volume e la coerenza profonda delle riflessioni che vi vengono sviluppate.
Questo volume, ben più corposo del precedente, meriterebbe una disamina dettagliata dei suoi contenuti e magari lo farò in altra sede. Tra i diversi argomenti dettagliati vi è una disamina-sunto dell'interessantissimo studio di Robert Whitaker, Indagine su di un'epidemia (Fioriti Editore, 2013) che in maniera molto documentata e rigorosa sfata miti della moderna psichiatria farmacologica e mostra la nuda verità di un incremento inarrestabile delle patologie psichiatriche, suggerendo l'ipotesi (con il sostegno di studi effettuati) che sia  proprio l'utilizzo degli psicofarmaci a incrementare l'incidenza e la cronicizzazione delle patologie psichiatriche. 

 

Robert Whitaker, Indagine su di un epidemia, Fioriti, 2013


 

(sintesi del volume di Whitaker) Lo straordinario aumento delle disabilità psichiatriche nell’epoca del boom degli psicofarmaci.
Se quello che ci è stato raccontato finora è vero, cioè che la psichiatria ha effettivamente fatto grandi progressi nell’identificare le cause biologiche dei disturbi mentali e nello sviluppare trattamenti efficaci per queste patologie allora possiamo con concludere che il rimodellamento delle nostre convinzioni sociali promosso dalla psichiatria è stato positivo.
Ma se scopriremo che la storia è diversa – che le cause biologiche dei disturbi mentali sono ancora lontane dall’essere scoperte e che gli psicofarmaci stanno, di fatto, alimentando questa epidemia di gravi disabilità psichiatriche – cosa potremo dire di aver fatto? Avremo documentato una storia che dimostra quanto la nostra società sia stata ingannata e, forse, tradita.


Quella del secondo volume della trilogia dello psichiatra riluttante è una lettura che consiglio caldamente a chiunque desiderasse farsi un’idea critica dello stato dell’arte del sistema dell’assistenza psichiatrica in Italia, oggi


(Risguardo di copertina) Oggi il manicomio non è più costituito da fasce, muri, sbarre, ma è diventato astratto, invisibile. Si è trasferito direttamente nella testa, nelle vie neurotrasmettitoriali che regolano i pensieri. Il vero manicomio, oggi, sono gli psicofarmaci. Stiamo oltretutto assistendo a una vera e propria mutazione antropologica: agli psichiatri, e alle case farmaceutiche, non bastano più i malati da curare, ma servono anche i sani. Lutto, tristezza, rabbia, timidezza, disattenzione, non sono stati d'animo fisiologici, ma patologie da curare con il farmaco adatto. Dal suo punto di osservazione privilegiato, Cipriano, il nostro psichiatra riluttante, sottopone a una critica severa i principali dogmi della psichiatria «moderna», a cominciare dalla diagnosi, ovvero l'urgenza burocratica di considerare «malattia » qualunque disagio psichico, cui segue l'immancabile prescrizione di un farmaco. E quando i farmaci non sono sufficienti, ritorna l'uso nascosto delle fasce e dell'elettrochoc. È questo il nuovo manicomio, meno appariscente, più discreto, in cui diagnosi e psicofarmaco dominano la scena.

Seguendo il link sotto potete accedere alla recensione del terzo volume della trilogia dello psichiatra riluttante

La società dei devianti. Continuano - in un terzo volume - le riflessioni e narrazioni di Piero Cipriano, psichiatra riluttante

 

Quello linkato sopra è un articolo di Zanfini Roberto, Crescenti Maria Cristina, Correddu Giuseppina, Gottarelli Lorenzo, Linari Federica, Ricci Manuela, Bandini Barbara (SPDC di Ravenna, AUSL della Romagna)

L’articolo descrive come il SPDC di Ravenna sia divenuto, dal 2016 un reparto no-restraint. Viene descritto come il no restraint non sia una posizione ideologica ma un metodo di lavoro che, se applicato, può portare al superamento della contenzione meccanica. Alla base del no restraint vi sono: a) fattori architettonici del reparto b) organizzazione interna e gestione delle interfacce; c) attività clinica e assistenziale; d) formazione.
Vengono portati dati a supporto del fatto che il no restraint, oltre che etico, riduce il numero delle giornate perse per infortunio del personale, il numero degli episodi di aggressività nei confronti del personale, la spesa sanitaria complessiva per ricovero. Infine vi sono suggestioni che possono anche essere ridotte le giornate in TSO. Servono comunque ulteriori studi a supporto di questi dati preliminari.

Questo il mio pensiero, scaturito da una mia riflessione sul campo, dopo il mio rientro lavorativo, presso una struttura che si occupa di pazienti psichiatrici.

Su oltre trecento SPDC sono solo una trentina quelli in cui non si pratica contenzione (bandita oggi per legge, ma praticata per "necessità"). Rimangono delle case di cure per disturbi mentali che accolgono pazienti per periodi protratti di tempo o, in alternativa, in alcune regioni si è attivata una rete di CTA a gestione privata e convenzionate con le Regioni, in cui i pazienti psichiatrici possono stare per periodi protratti (in Sicilia sino a sette anni (con un conteggio di tipo cumulativo che riguarda anche periodi diversi, intervallati con altri tipi di intervento). In molte regioni pochissimo si è investito per sviluppare degli interventi intermedi, diffusi nel territorio con strutture di accoglienza (Day Hospital, strutture di accoglienza, Centri diurni) con una modalità operativa H24 in modo che le famiglie e gli stessi individui possano ricorrere in tutte le diverse circostanze.
Vi è un gap enorme, incolmabile tra gli SPDC e le strutture di ricovero e residenziali a lungo termine, un vuoto che non potrà mai essere colmato se le diverse regioni continuano a restringere i budget della Sanità e, nello specifico, quelli assegnati alla Salute Mentale.
Cipriano nelle sue analisi ha ragione: nell'assenza delle regioni, nella mancata pianificazione di interventi capillari ed organici nel territorio, è ben difficile costruire buone prassi e cercare di ridurre quanto più sia possibile l'impregnazione farmacologica dei pazienti psichiatrici.
E questa è purtroppo la nostra realtà regionale (in Sicilia).
E' chiaro che quanto più si diffondono le CTA a gestione privata (che a tutti gli effetti rappresentano un business lucrativo) convenzionate con la Regione, tanto meno la Regione investirà nello sviluppo di interventi organici nel territorio.
Spinto dall'entusiasmo derivante dalla scoperta degli scritti di Cipriano, l'ho contattato attraverso i social e gli ho scritto una breve lettera per raccontargli la mia esperienza e desideroso di un confronto.

Buongiorno, Piero!
Sono un collega psichiatra, ormai un po’ anzianotto
Dopo anni di quiescenza (sono andato in pensione nel 2008) ho ripreso a lavorare in una struttura convenzionata, una CTA
Sto toccando con mano le incongruenze del sistema dell’assistenza psichiatrica qui in Sicilia
Mancano quasi del tutto le strutture intermedie, i CSM aperti H24 sarebbero un’utopia (e se proposti a chi governa e decide sarebbero considerati una blasfemia)
Manca il personale per far funzionare adeguatamente le strutture esistenti
Per esempio, in uno CSM decentrato un solo psichiatra, in un SPDC nella provincia di Palermo solo due, tanto per fare esempi di cose di cui sono a conoscenza.

Le CTA a gestione privata sono di fatto dei mini-manicomi territoriali per degenze medio-lunghe (con proroghe di sei mesi in sei mesi, sino ad un massimo di sette anni).
Dopo, il nulla.
Ho scoperto casualmente di te e dei tuoi libri che sto leggendo con molto interesse ed apprezzamento
Nel tuo modo di accostarti alle tematiche per sviscerarne in modo critico ritrovo tanto di me stesso giovane, anche per via del tuo stile non tanto di saggista ma di giornalista “gonzo” che ama mettere se stesso in gioco anziché ricorrere alla pratica del giornalismo in cui chi scrive si defila e mantiene una sua neutralità.
La lettura dei tuoi libri procede a gonfie vele e sono già al terzo volume della trilogia dello psichiatra riluttante, mentre in parallelo leggo a piccoli pezzi quello sull’ayauasca.

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27 ottobre 2023 5 27 /10 /ottobre /2023 07:02
Stephen King

Sono ad una convention dei fan di Stephen King

 

Di questo sogno ricordo poca roba
Con maggiore chiarezza
soltanto il momento della registrazione dei partecipanti,
quando, al termine di un lungo viaggio,
tutti in gruppo o alla spicciolata, 
arriviamo sovraeccitati e stanchi
in una vecchia casa fatiscente, 
piena di boiserie e di inquietanti scricchiolii
che, con il suo aspetto goticheggiante
e molto old America,
sembra essere lo scenario perfetto
per la convention 
Io ho portato co me
molti romanzi del Re,
poiché intendo chiedergli degli autografi
È stato scritto chiaramente nei flyer 
che sono stati fatti circolare da alcuni giorni
e che mi sono pervenuti:
sarà presente il Re in persona,
anche se non è stato detto quando

 

Ci sono vivaci conversazioni,
mosse più che da un reale desiderio
di conoscersi, dal bisogno di ambientarsi
e per meglio calarsi nell’atmosfera
(un po’ nel registro di 10 piccoli indiani)
Sono previsti diversi eventi
dark, horror e mistery
Sono molti quelli che indossano
perfette maschere al silicone
che riproducono le fattezze del Re
in diversi momenti della sua vita

 

Naturalmente, come in tutte le convention che si rispettano, 
c’è un’infinità varietà 
di partecipanti in maschera 
che impersonano i principali caratteri dei romanzi del Re, 
alcune pedisseque e precise al dettaglio,
altre assolutamente fantasiose 
e ciò nondimeno inquietanti
Moltissimi sono i Pennywise,
ma ci sono anche tutti gli altri,
in un’infinità galleria animata
L’effetto è davvero perturbante
Mi domando come è che faremo,
quando sarà il momento
della sua entrata in scena, 
a riconoscere il vero King
dalle imitazioni che ci circondano
Io no,
non indosso alcuna maschera,
non ho adottato alcun travestimento:
sono solo me stesso
con la mia curiosità 
Se avessi voluto travestirmi,
quale personaggio avrei potuto impersonare?, 
mi chiedo

 

Non ho dubbi al riguardo
La risposta è: Roland di Gilead,
l’Ultimo Pistolero o anche l'Ultimo Cavaliere,
detto anche The Gunslinger,
della serie The Dark Tower
(la Torre Nera)
e da ciò che posso vedere in questa convention
non c’è nessuno che lo rappresenti

 

Una grave mancanza!

 

Staremo a vedere

 

Accadono molte altre cose
che non ricordo più

 

Una convention dei fan di Stephen King
Una convention dei fan di Stephen King
Una convention dei fan di Stephen King
Una convention dei fan di Stephen King
Una convention dei fan di Stephen King
Una convention dei fan di Stephen King
Una convention dei fan di Stephen King
Una convention dei fan di Stephen King
Una convention dei fan di Stephen King
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7 ottobre 2023 6 07 /10 /ottobre /2023 06:36
Suzanne Simard, L'albero madre. Alla scoperta del respiro e dell'intelligenza della foresta (Finding the Mother Tree, nella traduzione di S. Albesano), Mondadori (Le Strade Blu), 2022

L'albero madre. Alla scoperta del respiro e dell'intelligenza della foresta (Finding the Mother Tree, nella traduzione di S. Albesano) scritto da Suzanne Simard e pubblicato da Mondadori (Le Strade Blu), nel 2022 è un testo di fondamentale importanza per la comprensione dell'ambiente secondo un paradigma totalmente differente da quello dominante che è fondamentalmente ispirato al pensiero di Darwin, fondata sulla competizione tra specie e sulla sopravvivenza del più adatto e del più forte.
Tale paradigma ci ha indotto a ritenere che, nel mondo animale, vigesse "la legge del più forte" e del più adatto alla sopravvivenza e ci ha spinto a costruire un mondo di relazioni tra esseri viventi basato sulla competizione e sull'accaparramento delle risorse.
Questo pensiero ha del pari permeato il modo di rappresentare il mondo vegetale.
Suzanne Simard con le sue intuizioni e con le sue ricerche pluridecennali (per sostenere le quali ha dovuto duramente lottare contro le idee inamovibili dell'establishment accademico) ha rovesciato questo paradigma, mostrando che gli alberi e le piante (non solo simili, ma anche appartenenti a specie diverse) costruiscono una vasta rete sotterranea in cui i collegamenti avvengono attraverso le terminazioni radicali, ma anche con il supporto di un reticolo di ife fungine (le cosiddette micorrize) che connettono le radici di alberi consimili (o anche appartenenti a specie diverse), facilitando il travaso e la circolazione di principi nutritivi (e non solo: anche di informazioni attraverso sostanze chimiche che possono considerarsi l'equivalenti dei mediatori chimici nel nostro cervello).
Nel corso del tempo, il pensiero della Simard è andato ulteriormente avanti sino ad ipotizzare che gli alberi - visti nel loro insieme - si connettono dando vita ad una sorta di mente collettiva grazie alla quale alcuni alberi sono avvisati tempestivamente (attraverso messaggi chimici veicolati lungo la rete di collegamenti) di noxae che agiscono su di un altro albero-individuo connesso alla rete di radici intercomunicanti con l’intermediazione del reticolo costituito dalle ife fungine, sicché gli altri possano prepararsi producendo enzimi e altre sostanze utili a contrastare l'azione della noxa (in questa specifica circostanza si ha una comunicazione attraverso sostanze chimiche che viaggiano nelle radici inter-connesse).
Sì è sviluppata, pertanto, nel pensiero della Simard l'idea feconda che gli alberi si accudiscano tra di loro e che, in particolar modo, quelli di una stessa specie, possano stabilire tra loro dei rapporti privilegiati mentre con quelli di altre si possono stabilire forme di auto-aiuto sulla base delle diverse peculiarità di ciascuna specie, come - ad esempio - nella interazione tra abete di Douglas e betulla.
Ed è nato così anche il concetto di "Albero Madre" (da cui il titolo del libro) che tiene d'occhio i propri "piccoli", facendoli crescere protetti nel suo cono d'ombra e fornendo alle loro radici nutrienti fondamentali per la loro crescita, sino al punto in cui questi potranno trasformarsi in "madricine" (ovvero "piccole madri"), cominciando a propria volta a dare vita attraverso i primi semi a nuovi alberi.
Il pensiero della Simard s'è sviluppato controcorrente, superando la diffidenza e l'ostilità dei cattedratici arroccati sulla loro idea della competizione darwiniana e della necessità di applicare rigorosamente nei rimboschimenti la tecnica della monocultura.
Le battaglie della Simard sono state portate avanti con intraprendenza e perseverazione e proseguendo nella via di sperimentazioni di lunga durata.
Tutto questo la Simard ci racconta in questo straordinario saggio autobiografico che è, assieme, una pietra miliare in una nuova visone della botanica e nella storia delle idee.
Si legge in modo appassionato anche perché l'autrice non esita a mettere a nudo la sua vita personale e la sua forte determinazione nell'andare avanti.
Il volume è corredato da due inserti di splendide foto a coloro e in bianconero.
Un libro assolutamente da leggere, a mio parere.

Ovviamente leggendo questo testo, è facile fare il collegamento con la teoria esposta da Lovelock e al suo costrutto di Gaia, in cui il nostro pianeta va vissto come un unico e articolato organismo vivente.

Le teorie della Simard hanno profondamente influenzato alcune elaborazioni culturali, nella narrativa come anche nella cinematografia: uno degli esempi più ragguardevoli in questo secondo ambito è il film Avatar, con il suo seguito recente Avatar 2. La via dell'acqua.
 

 

(Soglie del testo) In queste pagine, commoventi e profondamente personali, l'autrice condivide il suo mondo, ricordandoci che la scienza non è un regno separato dalla vita ordinaria, ma profondamente connesso con la nostra umanità.
(risguardo di copertina) Docente alla British Columbia ed ecologista di fama mondiale, Suzanne Simard è una pioniera nel campo della comunicazione e dell'intelligenza delle piante. 
Quando nel 1997 «Nature» pubblicò un suo articolo nel quale dimostrava come gli alberi comunicassero tra loro attraverso un'immensa rete di funghi sottoterra, nessuno poteva immaginare che questa scoperta avrebbe riscritto uno dei paradigmi della teoria evoluzionistica, quello secondo cui è la competizione tra le piante a modellare le foreste. Simard suggeriva infatti che fossero la vicinanza e la collaborazione, la diversità e l'inclusione a garantire la vita, l'ecologia e il benessere dei grandi boschi. Un'intuizione che le indagini condotte nei vent'anni successivi hanno ampiamente confermato. Ora, in queste pagine, commoventi e profondamente personali, l'autrice condivide il suo mondo. Svela i segreti che accompagnano la vita degli alberi come creature sociali, mostrando da vicino come questi modellino il loro comportamento ai bisogni della comunità cui appartengono, come si prendono cura gli uni degli altri. Perché la foresta è un ecosistema dove tutto è connesso, dove le specie si adattano, si sviluppano, crescono, completano il loro ciclo vitale mettendo in comune risorse e informazioni, diffondendo energia, saggezza, protezione. Come un'orchestra impegnata nell'esecuzione di una sinfonia, o come una famiglia che cresce attraverso il dialogo, l'aiuto reciproco, la condivisione di saperi e ricordi. 

Suzanne Simard

Ma soprattutto la Simard racconta come questo intreccio apparentemente miracoloso ruoti attorno a entità potenti e meravigliose, gli Alberi Madre, esemplari più anziani che non solo provvedono al nutrimento degli alberi più giovani, ma come dei veri genitori forniscono loro le «ricette migliori» per mantenersi in salute, contribuendo così, generazione dopo generazione, alla salvaguardia dell'ecosistema. 
L'Albero Madre ci accompagna nel complesso ciclo della vita nella foresta, ricordandoci che la scienza non è un regno separato dalla vita ordinaria, ma profondamente connesso con la nostra umanità.


L’autrice. Suzanne Simard insegna ecologia forestale presso l’Università della British Columbia. Autrice di oltre duecento pubblicazioni scientifiche, dal 2015 è a capo del progetto «Albero Madre». I suoi interventi ai TED Talks sono stati seguiti da più di dieci milioni di persone in tutto il mondo.
La sua è stata una vita di scienziata votata alle ricerche sul campo, nelle quali la Simard ha travasato la sua passione per la natura e le foreste, maturata sin dalla più tenera età

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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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