Sono all'interno d'una strana casa verticale
Tutto è oltremodo ripido
Qualsiasi spostamento mi procura le vertigini
Si tratta di scendere lungo una ripida scaletta con delle alzate fuori norma, con lo spazio dove poggiare il piede molto stretto
Ci si addentra (o meglio si scende) in una vasta sala ad anfiteatro ad assetto verticale
[e - lo dico qui come inciso - mi sono ricordato di quando, nel corso del mio viaggio in Messico, mi ritrovai a visitare la Piramide dell’Indovino, a Uxmal. La giornata era umida e piovosa. Tutto era grigio e da lontano vedevo i turisti che si arrampicavano su per la ripidissima scalinata, sorreggendosi ad una grossa catena che fungeva da appiglio e da sicura, come se stessero percorrendo una Ferrata. Mi vennero le vertigini solo a guardarli, soprattutto quelli arrivati alla sommità che parevano esili figurette in balia del vento e della pioggia: e mi rifiutai di compiere quell’ascensione]
In questo frangente, c’è anche Gabriel con me, ma presto - preso come sono a dovermi confrontare con il mio terrore cieco - lo perdo di vista
Rimango paralizzato su uno dei primi gradini della discesa
Non riesco a muovere il passo successivo e rimango, tremolante, a guardare il vuoto sotto di me che mi vuole inghiottire, famelico No, no, no!
Non posso! NO! NON VOGLIO!
Comincio ad arretrare, ansimante, in preda ad un'incontrollabile fame d'aria, con la fronte imperlata di sudore freddo
Sia come sia, riesco a cambiare direzione e, volgendo le spalle all’abisso, ritorno indietro, emergendo attraverso una specie di botola in uno spazio relativamente piano e senza precipizi di sorta
Traggo un grande sospiro di sollievo
E Gabriel?
Non c’è! Oh deus!
È rimasto là sotto!
Provo a chiamarlo, ma la mia voce è flebile, priva di forza
Si tratta di andar via, al più presto possibile, da questo posto folle
Immagino che, ovunque, vi possano essere trappole e trabocchetti
che possono ricondurmi a confrontarmi con il vuoto e con l’abisso
Gli abitanti della casa
mi guardano con sufficienza
e con commiserazione
perché non ho superato la loro prova ordalica
Alla fine Gabriel arriva,
fresco e pettinato
(ma lui ha fatto climbing e non ha paura del vuoto)
E ci incamminiamo per fare ritorno a casa
Dobbiamo viaggiare con la Metro e, dunque, scendiamo sottoterra per prendere il primo treno utile
E viaggiamo, viaggiamo
Il treno sfreccia silenzioso
Supera stazioni illuminate,
con le pareti dipinte con colori sgargianti,
alcune deserte,
altre affollate di gente in attesa
E poi arriva il momento di scendere
Risaliamo le scale,
attraversiamo atrii grandiosi,
camminiamo lungo interminabili corridoi
Poi mi giro, guardo, cerco
Gabriel non c’è più
Ero immerso nei miei pensieri
e mi ero dimenticato di tenerlo d’occhio
Che fare?
Penso di chiamarlo con il telefono
Armeggio con il mio, facendo una serie di errori, lancio chiamate a destinatari sconosciuti, per poi accorgermi che il suo telefono ce l’ho io
Gabriel l’aveva infilato nella tasca laterale della mia bisaccia (senza però dirmi niente)
Non so che fare
Magari me ne starò fermo ad aspettarlo, confidando nel fatto che lui possa ritornare indietro e raggiungermi
Poi, mentre sto elucubrando, mi giro e Gabriel è lì con me!
Pensavo che ti fossi perso!, gli dico
E lui: No, papà, no! Sono stato con te tutto il tempo!
Riprendiamo il viaggio verso casa e abbandoniamo lo spazio chiuso della Metro per venire alla luce
Dove siamo?
Non ne ho idea alcuna!
Non riesco ad orientarmi!
Effetto di derealizzazione e spaesamento
Mi guardo attorno e vedo che ci ritroviamo nel bel mezzo di un’immensa area portuale, dove grandi bastimenti attraccano di continuo e altri partono
E’ difficile procedere perché tutti gli spazi sono ingombri di catene enormi e di grosse gomene e, inoltre, giganteschi muletti entrano ed escono di continuo dal ventre delle navi, spingendo grossi carichi di mercanzie, autotreni e pesanti container
Poi, all’improvviso, intravedo la sagoma familiare di Monte Pellegrino e allora grido di giubilo: Allora, siamo a casa! E vaiiiiiii!
Si tratta soltanto di trovare una via di uscita da questo scalo portuale così caotico
Spero che riusciremo a farcela,
prima o poi
Dove si colloca la linea di demarcazione tra una struttura difensiva utile, proprio perché posta in alto, ed un luogo tanto remoto e fuori dai sentieri più comunemente battuti, da trasformarsi in...
Madangad is a fort in the Nashik region of Maharashtra, India in the Kalsubai range. Unlike Alang Fort, the top of the fort is a relatively small and tilted plateau. On the fort, there are a cave ...
Un fresco tramonto
dopo la calura del giorno
Momenti
Ginnasti
Saltimbanchi
Esteti del corpo
Dilettanti del pallone
e podisti tapascioni
o anche acuti corridori
Frotte di mamme e genitori
con bimbi ancora incerti sulle gambe
e ragazzetti vocianti
Tutti in attesa spensierata
degli ultimi aneliti
del giorno morente
dopo la morsa dell’afa
Un’immagine di ridente bellezza
e di spensieratezza
Maurizio Crispi (4 settembre 2024)
Villa Vincenzo Florio (Palermo), ex-villa dell’Atleta, accanto allo Stadio di Atletica (Case Rocca) - foto di Maurizio Crispi
Si tratta del mio commento ad una foto che scattai nel settembre del 2009 nel corso di una mia passeggiata a Villa Sperlinga e Piazza Unitá d’Italia. Il commento è nato nel cono d’ombra dei miei duetti a distanza (attraverso FB) con il mio amico Enzo che di lì a poco scomparve dai social
Maurizio Crispi
Un gigante di pietra - un telamonio - contempla le nuvole.
La scultura, al centro di un’aiuola spesso rinsecchita perchè popolata da un tipo di albero di alto fusto che prosciuga letteralmente il terreno (si tratta dei Brachychiton), è stata voluta alcuni anni dall'Amministrazione comunale, assieme ad altre due collocate all’interno della vicina Villa Sperlinga.
A differenza di queste ultime due alquanto indecifrabili (e, a mio parere, insignificanti), la prima (il torso di pietra) esercita sul passante una certa suggestione, forse perché in qualche misura induce a pensare ai "prigioni" michelangioleschi.
Il torso è possente e così pure la metà inferiore del corpo. La mancanza della testa e di parte degli arti superiore conferisce all'opera una certa inderteminatezza e un senso di incompiutezza.
In questo scatto, ravviso un doppio avvistamento.
Nelle mie infezioni, la foto doveva riguardare soltanto le nubi e non mi ero accorto - forse per via dell’incidenza della luce - che nell'inquadratura cadeva anche il prigione.
Quindi, in questa prima specie di avvistamento si è verificato un effetto blow-up.
Ma, nello stesso tempo, sembra che il gigante pietrificato sia intento a sua volta nell'avvistamento delle nubi nel cielo sopra di lui e che il suo corpo sia percorso quasi da un fremito di annichilimento e disperazione nella percezione del divario esistente tra la levità delle nubi che veleggiano alte e i vincoli cui - come statua - è condannato.
In attesa fervida della pioggia che non arriva
Invochiamo il cielo
Facciamo passi di una danza della pioggia
Le nuvole sono giunte alla spicciolata,
si sono addensate,
e son cadute quattro
goccioline quattro
subito evaporate via
Poi quelle nuvole avare
si sono allontanate
e sul mare hanno liberato
uno scroscio di pioggia
Ma a chi e a cosa serve
la pioggia nel mare?
Quindi, hanno proseguito il cammino
verso le azzurrine montagne lontane
Alberi sempre in sofferenza
in modalità difensiva
non hanno avuto
quel sorso d’acqua
benefico e salvifico
Continuiamo ad aspettare,
sperando che non sia passata
l’occasione buona
Aspetta e spera
Campa cavallo
Il cavallo campó
sino a che l’erba fu cresciuta
e lui poté nutrirsene
Le nubi tornarono
Si addensarono
in una coltre uniforme
infine, tuono e piovve,
a più riprese
La pioggia fece l’amore
con la terra riarsa
Un dolce petricore si levó,
assieme all’aroma delle foglie cadute
e dell’erba secca
Questo scrissi il 3 agosto del 2014, traendo impressioni e spunti di riflessione da una mia passeggiata nel caldo del solleone non ancora, ma quasi, ferragostano.
Ma ritengo che queste impressioni - a leggerle oggi - abbiano ancora una valenza di piena attualità e, per così dire, di 'freschezza'
Palermo d'estate diventa una città fantasma e i suoi marciapiedi butterati e le sue strade dissestate, ricettacolo di ogni sorta di cose abbandonate, foglie secche, rifiuti e pattume, carte stracciate, fogli di giornale spiegazzate e fruscianti nel vento e deiezioni di ogni genere, da quelle calcinate dal sole a quelle ancora calde, fresche e fumanti (nonché sinceramente olezzanti)
Sembra di vedere una città in uno scenario post-apocalittico, abbandonata dai suoi abitanti in fuga
Nessuno lavora più, tutto si ferma, in una paralisi messicana.
La merda decora marciapiedi ed aiuole
E qualcuno cerca di nobilitarla, mettendogli le ali, facendo degli stronzi abbandonati parodie stercorarie di Icaro che, armato di ali fatte con piume incollate con la cera al suo torso e alle sue braccia (grazie all'ingegno del padre Dedalo), cercò di volare in alto e raggiungere il carro del Sole nel suo quotidiano passaggio su in cielo
E la sua hybris lo uccise, perché come tutti sanno i dardi dell'astro infuocato fecero sciogliere la cera che teneva avvinte le piume ed egli precipitò
Perfino il posteggiatore abusivo se n'è andato, lasciando la sua sedia di plastica rotta vuota e inoccupata.
Quella che vedo è una città in fase di rottamazione
Nel seccume e tra i rifiuti, rimangono soltanto le Trombe dell'Angelo che pendono inutili, incapaci perfino di far crollare le mura di Gerico e di spazzare via le montagne di rifiuti che si accumulano senza sosta
Dalle vetrine di negozi chiusi per ferie definitive occhieggiano manichini, alcuni impudicamente nudi, altri vestiti di tutto punto, uomini, donne e bambini e di notte escono fuori dalle loro case di vetro e invadono le strade silenziose, come zombie alla ricerca di prede
Quel bel pomodoro rosso troneggiante al centro della distesa d'asfalto e che pareva un fiore carico di promesse succose si disfà lentamente sotto il sole nella canicola d'agosto.
Ogni giorno un extracomunitario, probabilmente asiatico, pelle molto scura, bianca barba profetica, si accomoda su questa sedia pieghevole davanti all’ingresso della farmacia di via Ludovico Ariosto, a Palermo, proprio accanto alla libreria "Punto Einaudi", di cui sono frequentatore e cliente.
Per ore se ne sta seduto lì paziente e chiede un obolo a tutti coloro che entrano ed escono dalla farmacia, ma anche ai passanti.
É gentile nel suo chiedere, non invadente e neppure aggressivo, come invece si connota di frequente il comportamento di altri questuanti.
È una presenza assidua
Non si può non notarlo
Quando si ritira nei suoi quartieri (e mi chiedo: dove abiterà mai? Avrà una sua famiglia? Un suo posto?) la sedia la lascia legata alla balaustra un po’ sbilenca che delimita i posti auto riservati agli acquirenti della farmacia.
Non avrebbe senso, in fondo, portarsela a casa e fare avanti e indietro con quel carico!
È più pratico lasciarla lì, pronta per l’uso, il giorno dopo. In fondo, è il suo strumento di lavoro, ma - d’altra parte - chi potrebbe mai voler rubare una vecchia sedia?
Mr Arancino. Buona la prima! Ecco cos'ho avvistato questa mattina! C'era questo tipo enorme obeso, proprio un pacchione, un ciccione di grossa stazza, tutto proteso in avanti Ho pensato, in prima ...
Desert Solitaire. Una stagione nella natura selvaggia (Desert Solitaire: A Season in the Wilderness, nella traduzione di Stefano Travagli) di Edward Abbey in anni abbastanza recenti è stato molto opportunamente riproposto da Baldini&Castoldi /nella collana "Romanzi e racconti, nel 2015), dopo una prima edizione praticamente introvabile per i tipi di Muzzio, nel 1993, con il titolo di "Deserto solitario".
Questa era la presentazione di quella prima edizione:
"Deserto solitario di Edward Abbey, un fecondo scrittore statunitense di “letteratura naturalistica”, è il racconto eloquente, amaro e stravagante di una stagione trascorsa dall’autore, in qualità di ranger, a sorvegliare l’Arches National Park nello stato dello Utah (area di Moab), uno dei luoghi più caratteristici e più selvaggi dell’immenso e variegato paesaggio del Nord America: la regione dei canyon. All’epopea dell’esperienza narrata dall’autore, alla fine degli anni 160, questi territori ancora 'selvaggi' cominciavano ad essere investiti dal turismo 'su scala industriale' e ad essere minacciati dal progetto di una diga che ne avrebbe sommerso una parte, assieme alle ineguagliabili forme di vita animali e vegetali che l’abitavano. Il libro è per questo diventato negli Stati Uniti un documento di denuncia attorno a cui si è raccolto il movimento degli ambientalisti per difendere la natura dei parchi. Il libro non è però un semplice resoconto: è un racconto vero, di una notevole cifra letteraria, che contiene molte altre storie – di indiani e cow-boy, di cercatori di uranio e di cavalli selvaggi – che sfumano nella favola e nel mito; è un inno poetico e ribelle, di rara ispirazione, alla natura selvaggia; è un manifesto dai toni anarchici e estremi sui rapporti dell’uomo con l’ambiente naturale.
Scrive Abbey nella sua breve introduzione al volume:
"Una decina di anni fa [la sua opera fu pubblicata per la prima volta nel 1968] decisi di andare come ranger stagionale in un luogo chiamato Arches National Monument, vicino alla cittadina di Moab, nello Utah sudorientale. Il motivo della decisione non è più importante, ciò che ho trovato lì è l'argomento di questo libro" (p. 7)
Si trattò per lui di un'esperienza durata un semestre (dal 1° aprile sino al 30 settembre).
Ritornò a fare lo stesso lavoro anche l'anno successivo.
Sarebbe tornato anche per il terzo anno e forse lo avrebbe fatto anche per tutti gli anni successivi, ma rinunciò.
Perchè? Ce lo dice lo stesso Abbey:
"... gli Arches, un luogo primitivo quando vi ero stato la prima volta, sfortunatamente avevano conosciuto sviluppo e sfruttamento [che per lui furono intollerabili da affrontare] e dovetti rinunciare" (ib.).
La bellezza della natura selvaggia era stata deturpata e, negli anni successivi, lo sarebbe stata ancora di più, con progetti dissennati di sviluppo turistico, di sfruttamento minerario e idroelettrico, con la costruzione di una diga che, messa in opera, avrebbe stravolto l'aspetto originario dei canyon, occultando per sempre alcune delle più magnifiche bellezze naturali.
Abbey riferisce di essere tornato comunque, a distanza di molti anni, negli stessi luoghi, di aver fatto un tour completo e di essersi, infine, fermato per una terza stagione che gli diede modo di registrare i cambiamenti drammatici avvenuti in sua assenza.
L'essenza del libro è tratta dalle pagine di diario che Abbey ha riempito febbrilmente in queste tre stagioni, mentre altri capitoli sono stati costruiti con il ricordo di escursioni effettuate in altri momenti e con digressioni/riflessioni di vario tipo, tra le quali non mancano delle critiche intense e dure contro il suo datore di lavoro stagionale, cioè l'amministrazione del National Park Service (che fa capo al Dipartimento dell'interno del Governo degli Stati Uniti).
La sua esperienza ripetuta nel corso degli anni è stata di solitudine vivificante nel cuore del deserto (all'interno di scenari di una bellezza grandiosa), alloggiato in una piccola roulotte, con un incarico da ranger che comportava per lui un minimo di impegno giornaliero per alcuni compiti di routine e che, per il resto del tempo, lo lasciava libero di contemplare, di riflettere, di meditare, di osservare nei dettagli più minuti la flora e la fauna e di compiere anche delle escursioni.
Una posizione invidiabile quella di Abbey, per alcuni aspetti, a condizione di saper tollerare la solitudine.
L'esperienza della wilderness è anche un'esperienza di solitudine e di capacità di star da soli.
In questo senso, la scrittura (e l'esperienza che ad essa è sottesa) di Abbey si avvicinano molto a "Walden, ovvero la vita nei boschi" di Henry David Thoreau che è un classico sotto molti punti di vista e, tra le tante cose, anche dell'anarchismo libertario.
Ma, in molti passaggi, c'è anche molto di Twain, a mio parere, e soprattutto del suo personaggio iconico Huckleberry Finn che si vede emergere chiaramente nel lungo capitolo che descrive la discesa del Colorado, compiuta da Abbey su due canotti di gomma attrezzati per un'avventura di una settimana, assieme ad un amico.
O anche la venatura lirica e struggente in alcune descrizioni paesaggistiche e naturalistiche che fa pensare alla prosa di Cormac McCarthy, quando i suoi personaggi agiscono al cospetto di una Natura che è assieme bellissima e intangibile, quasi crudele in questo distacco dagli Umani.
Vi è una forte vena di anarchismo libertario, quando Abbey - per esempio - invita coloro che vorranno visitare l'"Arches National Park" di lasciare l'auto alle soglie del parco e di avventurarsi a piedi ad esplorare, facendo ciò che possono (e vedendo ciò che possono, di conseguenza) soltanto muovendosi sulle proprie gambe. Ma questa vena si ritrova anche nell'invettiva che egli lancia contro coloro che vorrebbero costruire più strade asfaltate e più piazzole di sosta all'interno del Parco (il suo, ma anche di altri), per consentire forme di turismo facile e superficiale, in altri termini "consumistico" (da ciò discende il corollario che alcuni dei luoghi più belli dovrebbero essere mantenuti "segreti", anche se la la società dei consumi fa di tutto per evitare ciò).
Abbey sarebbe stato sicuramente tra quelli che qui in Italia si sarebbero schierati fermamente contro l'uccisone dell'orso "killer", come del resto lui accetta pacificamente che, nel corso della sua permanenza nel deserto, possa imbattersi in un puma. Simili accidenti fanno parte della wilderness e non si può bere dal calice di essa senza tener conto di eventuali pericoli (ed eventualmente affrontarli, o patirne le conseguenze), come anche smarrirsi nel deserto, morire per disidratazione o altro.
Quella di Desert Solitaire è una lettura assolutamente godibile ed è possibile imbattersi in alcuni passaggi descrittivi che - come ho già detto - sono fortemente lirici.
E, per tutti i motivi illustrarti, è anche un testo di formazione per il lettore che legge i resoconti e le narrazioni delle tre stagioni di Abbey nel deserto sudorientale dello Utah.
Infine, aggiungerei come postilla, non si può leggere l'opera narrativa successiva di Abbey, pubblicata la prima volta nel 1975, "The Monkey Wrench Gang" (I Sabotatori, Meridiano Zero, 2001) senza aver letto prima Desert Solitaire, poichè proprio qui si ritroveranno tutte le tematiche e le motivazioni che spingono i quattro protagonisti a diventare sabotatori per contrastare lo sfruttamento efferato del deserto e il sovvertimento (nonché l'addomesticamento) della natura selvaggia, voluto dal Governo centrale e dalle multinazionali.
La filosofia dei quattro sabotatori trae radici e alimento proprio dalle pagine di Edward Abbey e le loro imprese diventarono un "classico" della nuova ondata del movimento ecologico statunitense e del mondo (e, per alcuni versi, anche del cosiddetto "ecoterrorismo").
(Risguardo di copertina) "Desert solitaire" è diventato un libro di culto sin dalla sua pubblicazione, nel 1968. Un racconto provocatorio e mistico, arrabbiato e appassionato, in cui Edward Abbey ci restituisce la sua esperienza di ranger nell'Arches National Monument, nel Sudest dello Utah, catturandone l'essenza e trasmettendoci il desiderio di vivere nella natura e conoscerla nella sua forma più pura: silenzio, lotta, bellezza abbagliante. Ma "Desert solitaire" è anche il grido angosciato di un uomo pronto a sfidare il crescente sfruttamento operato dall'industria petrolifera, mineraria e del turismo.
Sono trascorsi quasi cinquant'anni, e le osservazioni di Abbey, le sue battaglie, non hanno perso nulla della loro rilevanza. Anzi, oggi più che mai, "Desert solitaire" ci chiama a combattere, mettendoci di fronte a un'ultima domanda fondamentale: riusciremo a salvare ciò che resta dei nostri tesori naturali prima che i bulldozer manovrati dal profitto colpiscano ancora?
L'autore. Edward Abbey,1927, Home (Pensylvania) e deceduto a Oracle (Arizona) nel 1989.
Ha studiato presso l'Università del New Mexico e all'Università di Edimburgo.
Filosofo, saggista e romanziere americano, esordì come scrittore negli anni Sessanta dopo aver lavorato a lungo come guardia forestale nei parchi nazionali di mezza America. Arrivato al successo con The brave Cowboy, che divenne un film interpretato da Kirk Douglas, con The Monkey Wrench Gang fu consacrato eroe della nuova ondata ecologista americana, diventando al contempo autore di primo piano nel panorama letterario americano.
Più di vent’anni dopo averlo acquistato, mi sono accinto alla lettura del romanzo cult di Edward Abbey, I Sabotatori (titolo originale: The Monkey Wrench Gang), pubblicato da Meridiano Zero nel 2001.
Quando l'ho preso tra le mani era ben stagionato, con le pagine ingiallite a dovere e, finalmente, l'ho aperto, l'ho sfogliato e finalmente mi ci sono immerso, avendo la consapevolezza di avere tra le mani un libro cult, un vero prodotto d’annata, scritto da un ecologista ante litteram (ma anche predicatore dell’ecoterrorismo), quando ancora ben poco si parlava di tutela dell’ambiente, con l’eccezione, ovviamente di un classico come “Primavera silenziosa” di Rachel Carson.
Il primo capitolo mi ha fatto intendere che io e questo libro saremmo andati d’accordo!
Ho sentito sin da subito che sarebbe stato il mio libro di lettura preferito nelle mie attese in auto!
(Presentazione) Un medico. La sua infermiera nonché fidanzata. Un giovane reduce specializzato in demolizioni. Un mormone con tre mogli. Un improbabile quartetto di aspiranti guerriglieri, eco-terroristi decisi a salvare quel che resta della natura di Utah e Arizona, del selvaggio paesaggio del deserto. Intraprenderanno una lunga serie di sabotaggi e di avventurose incursioni fino al progetto più ambizioso: far saltare la diga del Glen Canyon, intollerabile scempio ambientale.
Praticamente sconosciuto in Italia, il polemista-filosofo-naturalista-scrittore Edward Abbey (1927- 1989) è considerato una specie di eroe dal movimento ambientalista e dalla controcultura americana. La sua lotta appassionata in difesa della wilderness ha raccolto schiere di ammiratori entusiasti e di detrattori imbestialiti. Nato durante la Grande Depressione in una sperduta fattoria dei monti Appalachi, in Pennsylvania, all’età di 17 anni si mette sulla strada e viaggia per il Sud Ovest, in autostop e su carri merci, restando folgorato dalla bellezza selvaggia di quei luoghi desertici da cui per tutta la vita non riuscirà mai più a staccarsi. Abbey esprime una ribellione radicale contro il concetto imperante di antropocentrismo. La guerra che l’uomo ha dichiarato alla natura – afferma l’autore – nasce dalla terrificante percezione che essa è assolutamente indifferente al destino dell’uomo. Inutile attribuire valenze etiche alla natura, un processo efficiente, brutale, spietato e insieme pulito e meraviglioso. È un luogo magico in cui si può entrare solo patteggiando costantemente la propria presenza.
Nel ‘75 dà alle stampe quello che diverrà il suo best seller: The Monkey Wrench Gang (I Sabotatori), dove – tra il serio e il faceto – propone una sorta di contro-vandalismo attivo contro il vandalismo perpetrato dal cosiddetto progresso contro la natura, che dopo l’ignoranza distruttiva dei pionieri deve subire le pratiche distruttive coscienti delle industrie. In questo libro facile e scanzonato, Abbey abbandona la contemplazione e la disobbedienza civile di Thoreau per indossare definitivamente gli abiti di Ned Ludd.
Lascia lente le briglie del tuo ippogrifo, o Astolfo,
e sfrena il tuo volo dove più ferve l'opera dell'uomo.
Però non ingannarmi con false immagini,
ma lascia che io veda la verità e possa poi toccare il giusto.
Da qui, messere, si domina la valle: ciò che si vede, è.
Ma se l'imago è scarna al vostro occhio,
scendiamo a rimirarla da più in basso
e planeremo in un galoppo alato
entro il cratere ove gorgoglia il tempo
Mura in parte dirute,
ancora imponenti
Arcate ardite
che lasciano immaginare inauditi fasti
Il giallo delle ferule
e poi i sonagli delle pecore condotte al pascolo
con i fischi del pastore che le conduce in gruppo serrato,
con l'ausilio del cane fedele
Qualche mucca sparuta al pascolo
In un altro campo
una compagnia di ciuchini
si appresta attorno ad una mangiatoia
dove sono state disposte balle di fieno
Nel cielo intrecciano voli, a decine,
le cornacchie che trovano alloggio
nelle cavità dei bastioni diroccati
Alcune dopo aver razzolato nell'erba alta
si levano in volo
con qualche grasso lombrico
pendente dal becco
C'è silenzio profondo,
rotto appena dai richiami delle cornacchie,
di altri volatili,
forse anche dal cra cra di un corvo
e dal soffio del vento
Dall'alto della rocca
si domina la valle
ed è una veduta di grande serenità
e d'impegno
Vorrei levarmi in un volo a spirale
in groppa ad un cavallo alato,
salire verso il firmamento
sino a toccare le stelle
per poi ridiscendere al fondo della valle
ove gorgoglia il tempo
Ho sempre visto da lontano i ruderi del Castello di Cefalà Diana: quella torre svettante e la sagoma di quell'arco slanciato mi hanno sempre attratti, provocando in me un senso di soggezione per via
La foto che vedete è stata scattata dalle parti di via Ruggerone da Palermo
Ci sono delle zone della città - autentiche zone franche o zone d’ombra o non luoghi - in cui i raccoglitori latitano per giorni e giorni, mentre la monnezza deborda sino ad invadere la sede stradale in montagne prorompenti.
I cassoni ricolmi e mai svuotate sono delle autentiche cornucopie della munnizza.
Perché continua ad accadere ciò?
Varie possono essere le cause
Mancanza di personale?
Penuria di mezzi?
Incapacità di pianificare e organizzare?
Oppure semplice strafottenza/negligenza?
Può anche darsi che l'incuria/negligenza dipendano da un mix letale di tutte le cause elencate sopra.
Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre
armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro
intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno
nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).
Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?
La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...
Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...
Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e
poi quattro e via discorrendo....
Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a
fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.
E quindi ora eccomi qua.
E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.