Overblog
Segui questo blog Administration + Create my blog
25 giugno 2023 7 25 /06 /giugno /2023 16:21

Il valore della relazione medico-paziente appartiene sempre meno al sentimento della comunità. Oggi assistiamo alla scomparsa della medicina generale e al predominio di quella specialistica, il corpo intero svanisce per lasciar posto alle sue parti. E quando le parti sono curate come separate, senza poi essere riunite nella mente del medico, il rischio è perdere di vista il compito principale: curare il malato, non solo la malattia. Instaurare una relazione di conoscenza e fiducia. Paradossalmente, sono proprio i successi bei confronti delle malattie ad avere determinato gli insuccessi nei confronti delle persone.

Dalla prefazione di Vittorio Lingiardi (p. 10)

John Berger e Jean Mohr, Un uomo fortunato. Storia di un medico di campagna, Il Saggiatore, 2022

Un uomo fortunato. Storia di un medico di campagna (A Fortunate Man: The Story of a Country Doctor, nella traduzione di Maria Nadotti che é anche curatrice dell’opera) di John Berger, con le foto di Jean Mohr, pubblicato per Il Saggiatore, è un libro davvero straordinario che è diventato fruibile per i lettori italiani soltanto nel 2022 a distanza di oltre 50 anni dalla sua uscita in lingua originale (1967), significativamente, dopo i tempi del Covid e del consolidarsi di una pratica della Medicina sempre più spersonalizzata ed ipertecnologica.
C'è da rammaricarsi che nessuno abbia avuto l'idea di tradurlo e diffonderlo già al tempo della sua prima pubblicazione, perché ha tanto da insegnare, non soltanto ad un pubblico di lettori "laici", ma anche a tanti che esercitano la professione medica. 
Credo che sia un libro che tutti coloro che si affacciano alla professione medica dovrebbero leggere, poiché è profondamente formativo e soprattutto mostra quanto dietro l'aspetto tetragono e distaccato di colui che cura vi possa essere un "guaritore ferito". che continuamente si risana attraverso il gesto della cura, attraverso il suo esserci, attraverso la sua capacità di custodire in sé la memoria storica di ciascuno dei suoi "pazienti"

E' un libro che parla della vita di un "medico di campagna" (come dice il sottotitolo) a cui viene attribuito il nome di John Sassall (un medico che vive ed opera in una piccola regione rurale dell'Inghilterra (nel villaggio di St Briavels, nella contea del Gloucestershire, poco distante da Bristol), avendo il carico di circa 2000 anime, gli "uomini del bosco" come vengono definiti da John Berger.
John Berger e Jean Mohr, quest'ultimo in veste di fotografo, hanno vissuto per tre mesi in quei luoghi, osservando e documentando l'attività di John Sassall, riflettendo sul suo modo di relazionarsi con i suoi assistiti (meglio con le "anime" che gli erano affidate), senza burocrazia di mezzo e con molta fattualità e attenzione.

Cosa sono tre mesi nella vita di un uomo? Niente, si potrebbe obiettare. Eppure possono anche essere un periodo molto lungo, ed essere isomorfici con tutto il resto che rimane nell'ombra, non espresso e non documentato, sufficiente a mettere in luce ciò che è nascosto e a dare un senso generale. E quindi, questi tre mesi di osservazione sono stati pregnanti: hanno consentito ai due atori a costruire il ritratto efficace di un medico di campagna, ma prima ancora di un uomo che sembra dedicare la vita agli altri, con estrema dedizione.

In questo testo, semplice e complesso nello stesso tempo, non ci sono conclusioni definitive, ovviamente. Rimane come un testo aperto, dal quale ciascuno può trarre le sue conclusioni
I due autori (uno attraverso le parole, l'altro con le immagini) fanno soltanto delle illazioni, propongono delle ipotesi. Quello che emerge è una buona prassi medica, il gesto di cura, l'attenzione per le persone che appunto sono persone, individui, portatori d'un carico di umanità e di storie, prima ancora dei semplici "assistiti" burocratizzati.

Per tutto ciò che è raccontato, la comunità, i luoghi, le persone, fa da tramite lui, John Sassall, "buon" medico di campagna che segue con abnegazione i suoi pazienti - in quanto curante - anche quando vengono ricoverati nel presidio ospedaliero della vicina Bristol.

Di Sassall non si sa molto altro, poiché viene visto elettivamente nella sua pratica di medico. Non viene minimamente menzionato se abbia  una famiglia, dei figli (o meglio, viene appena accennato). Non si sa se vi sia dentro di lui n cuore di tenebra che crei delle turbative. E' ciò che fa, in sostanza.
Ed é' un medico abile, a quanto pare. Si è forgiato durante la guerra, come chirurgo militare. E' in condizione di affrontare le emergenze, di praticare piccoli interventi chirurgici, di assistere le partorienti. Gira in continuazione da una casa all'altra con il suo repertorio di farmaci; riceve i pazienti nel suo ambulatorio; si intrattiene con loro; assiste i morenti, è membro attivo della comunità, conosce - per quanto è possibile - i segreti di ciascuno.

In alcune foto lo si vede da solo, sperso nella vasta natura boschiva o mentre si incammina lungo un sentiero in salita per raggiungere un cottage; altre volte si vedono vasti paesaggi o l'ansa di un fiume, fiancheggiata da una strada bianca ed un auto che la percorre (sarà Sassall che, a bordo del suo veicolo, si reca in visita domiciliare da qualcuno dei suoi pazienti?)

E' probabilmente, anche, un uomo sofferente al suo interno, anche se non lo dà a vedere (e, d'altra parte, nella scelta di fare il medico, vi è spesso questo elemento, come fattore motivante e come carburante interiore).

Berger sottolinea nella sua narrativa che forse, all'inizio della sua pratica, per Sassall era importante "salvare vite" e che il suo intervento era questione di vita o di morte (senza possibili sfumature intermedie: in questo forte orientamento, Berger lo paragona ad un personaggio conradiano e in particolare al capitano di una nave che si accinge ad affrontare il mare in tempesta, avendo la responsabilità di tutte le anime a bordo e che non riuscendoci porterà il peso della colpa su di sé per il resto della vita.

Soltanto in seguito, questa posizione - un po' onnipotente secondo una griglia di lettura psicoanalitica - si stempererà in un assetto più accogliente delle sfumature intermedie: se non si può guarire, si può far star meglio; la cura medica si fonda allora anche sul conforto dell'anima, attraverso un approccio che non è più soltanto tecnico, ma dialogico, di apertura ed interesse nei confronti dell'Altro, di un suo riconoscimento.

A quanto pare questa trasformazione sarebbe avvenuta in Sassall, quando - prendendo atto di un suo nucleo di sofferenza interna - prese a a leggere e a consultare le opere di Sigmund Freud. 

La sua pratica allora assume i contorni di una dedizione e di una capacità ancora più intensa di entrare in una "relazione di cura", a 360 gradi, con la consapevolezza che l'oggetto relazionale (che in questo caso è il Paziente, in tutte le sue possibili declinazioni) non sempre può essere risanato in maniera totale e definitiva e che, in talune circostanze, occorrerà accettare che rimanga come un "oggetto danneggiato" (in termini relazionali) che potrà essere aiutato a vivere meglio o semplicemente supportato  dal conforto di parole e di attenzione. E ciò passa necessariamente attraverso l'accettazione di essere in primo luogo un "guaritore ferito", ciò uno che occupandosi di far star meglio gli altri risana in qualche modo il proprio nucleo interiore di sofferenza (che mai guarirà, tuttavia, in modo definitivo). Tutto questo non è semplice, poichè passa attraverso una presa di contatto della propria sofferenza: tutto l'opposto di chi si rifugia nella pratica medica per non dover sentire, per non doversi confrontare con i propri nuclei interni di sofferenza, costruendo attorno a sè una dura scorza di cinismo e di indifferenza (che è quella che, purtroppo, molte scuole di medicina odierne stanno insegnando, puntando tutto sulla iper-specializzazione, sulla settorializzazione, sul tecnicismo esasperato che scompongono la persona malati, in organi e apparati danneggiati)

Ecco questo è il ritratto di Sassall che Berger ci consegna.
Perchè viene definito un "uomo fortunato"?

Ecco ciò che ci viene detto quando il racconto si avvia ormai alla chiusura:

"Sassall è nondimeno un uomo che fa ciò che vuole. O, per essere più precisi, un uomo che persegue ciò che desidera perseguire. A volte la sua ricerca comporta tensione e sconforto, ma di per sé è la sua unica fonte di soddisfazione. Come un artista o come chiunque altro creda che il proprio lavoro giustifichi la propria la propria vita, Sassall - secondo i miserabili standard della nostra società - é un uomo fortunato" (ib., p. 176)

Poi, più avanti, si legge:

"Sassall, con l'intuizione astuta di cui ogni uomo fortunato necessita al giorno d'oggi per poter continuare a lavorare a ciò in cui crede, ha creato la situazione di cui ha bisogno. Non senza un costo, ma nel complesso soddisfacente: In essa lavora. E' al lavoro adesso, nel momento in cui scrivo" (ib. p. 187)

Ed qui che prende l'avvio la riflessione di John Berger sul fatto che questo scritto rimarrà incompiuto e non potrà giungere a conclusione definitive sulla vita e le opere di John Sassall, sul suo modo di essere stato medico, sul suo operare, esattamente come si farebbe con un artista che ha scritto i suoi romanzi o ha dipinto i suoi quadri, esaminando in maniera postuma le sue opere e mettendole in relazione con gli eventi della sua vita.

Un giudizio definitivo - dice Berger - può esser dato soltanto soltanto dopo, a posteriori (e non sempre una valutazione globale è possibile farla in una maniera compiuta: ogni vita è in qualche modo "unfinished", incompleta, ma in ogni caso, guardando a uomini ordinari che compiono cose straordinarie, ponendosi come un piccolo capolavoro, unico e irripetibile).

Mi è sembrato di leggere, dico "sembrato", perché poi questa frase non sono più riuscita a trovarla da nessuna parte nel testo, per quanto accuratamente ne abbia sfogliato le pagine, che dopo alcuni anni, Sassall abbia abbandonato la sua posizione e che sia andato a fare il "medico scalzo" cioè un medico che opera nei contesti rurali con uno strumentario minimo e spostandosi a piedi da un luogo all'altro. E' una leggenda? E' una mia allucinazione testuale? E poi dove? In Cina dove era diffusa, tradizionalmente questa figura? Oppure rimanendo in patria?

Certo è che la prassi del medico scalzo, un medico che viene ricompensato soltanto quando i suoi pazienti non manifestano segni e sintomi di malattia e che applica nel modo più corretto i precetti ippocratici, quali "il poco è il meglio" e l'attenzione estrema al potere delle acque, dell'aria, degli altri elementi e dell'alimentazione di interferire con la salute individuale e collettiva, rappresenta un logico sviluppo della medicina incentrata sulla relazione e sulla capacità del medico di essere egli stesso "farmaco".

Ma ritornando a quanto dicevo, circa l'impossibilità di emettere un giudizio definitivo, quindici anni dopo (nel 1999), in un'edizione successiva, Berger si sentirà in obbligo di aggiungere una postfazione, una postilla più che altro, per discutere dell'esito imprevisto e drammatico della vita di John Sassall che lascia aperto ed irrisolto l'enigma che lo riguarda e che, forse, apre uno spiraglio inquietante sul nucleo duro di sofferenza che egli si portava dentro.


 

Il testo scritto è corredato dalle splendide foto di Jean Mohr che mostrano i luoghi, la gente, il medico sia nell'esecuzione di atti propriamente medici sia nei momenti di relazionalità con i suoi pazienti e in momenti sociali, come nelle foto che documentano la discussione sul modo per intervenire per risanare il "Fossato" e restituirlo alla fruizione della comunità. 
Il testo offre delle chiavi di lettura alle foto, ma nello stesso le foto arricchiscono le possibili chiavi di lettura del testo.
"Il dialogo tra testo e foto è uno degli aspetti più suggestivi di questo libro: la conversazione tra la scrittura di Berger e la fotografia di Mohr coinvolge lettrice e lettore in un'intimità partecipe, spesso dolente, mai invadente" (Vittorio Lingiardi, Prefazione, p. 11)
La prefazione scritta da Vittorio Lingiardi fa da "viatico" al testo,  fornendogli chiavi di lettura,  ulteriore spessore, ramificazioni concettuali e spunti di approfondimento, come ad esempio il riferimento alle teorizzazioni di Michael Balint e al presupposto di ogni pratica medica umanistica in cui sia il curante stesso a somministrare se stesso come farmaco.
Segue una breve introduzione di Iona Heath, la quale dice:
"Se nel corso della vita, mi fosse dato di leggere un solo libro sulla medicina generale, sarebbe questo. Per questo testo meraviglioso e senza età abbiamo un enorme debito di gratitudine
nei confronti di John Berger e di Jean Mohr
". (ib., p. 22)

 


(Risguardo di copertina) "Un uomo fortunato" è una riflessione in parole e immagini sui rapporti tra l'individuo e la comunità che lo circonda. È un ritratto, allo stesso tempo poetico e sociologico, della dimensione più umana del lavoro del medico e di cosa significhi appartenere a una collettività e mettersi al suo servizio. Nel 1966 John Berger e il fotografo Jean Mohr seguono per tre mesi l'attività del medico di campagna John Sassall, documentandone la vita, le abitudini e gli incontri. Sassall vive nella foresta di Dean, in Inghilterra, tra i suoi pazienti, e ogni giorno si muove all'interno del territorio rurale per curare i malati, gli anziani e le persone sole. Ciò che affascina Berger e Mohr è che Sassall non si limita a prescrivere medicine, ma per la gente del luogo è anche un confidente, un depositario di ricordi. È preciso, attento e premuroso. Prima di fare un'iniezione pronuncia frasi rassicuranti. In inverno, quindici minuti prima di visitare un paziente, accende la termocoperta così da non fargli sentire freddo. È presente a tutte le nascite e a tutte le morti. In ogni situazione riconosce l'istante in cui può fare la differenza, ma conosce anche i propri limiti, come persona e come medico. Arricchita da una prefazione di Vittorio Lingiardi e da una introduzione di Iona Heath, quest'opera, finora inedita in Italia, ci rivela con grande delicatezza come ogni territorio, se guardato o osservato a distanza, sia ingannevole. Esso è infatti, innanzitutto, la rete disegnata dai gesti e dai pensieri dei suoi abitanti, dalle loro lotte, conquiste e sventure.
 

Gli autori
John Berger, nato nel 1926 a Londra è morto nel 2017, è stato critico d’arte, giornalista, sceneggiatore cinematografico, autore teatrale e disegnatore.
Nel 1972 assurge a grande popolarità quando la BBC trasmette una serie di documentari da lui ideati e condotti, con il titolo Ways of seeing. 
In questi inviti a vedere l'arte nel quotidiano, Berger si è ispirato in parte all'opera di Walter Benjamin, e segnatamente a L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica.
Da sue sceneggiature, il regista svizzero Alain Tanner ha tratto i film Jonas qui aura 25 ans en l'an 2000 e Les années lumières.
Tra i suoi libri di narrativa tradotti in italiano, ricordiamo Qui, dove ci incontriamo (Bollati Boringhieri, 2005), Una volta in Europa e Lillà e Bandiera (Bollati Boringhieri, 2003 e 2006), Festa di nozze (Il Saggiatore, 1996), Ritratto di un pittore (Bompiani, 1961), Confabulazioni (Neri Pozza, 2017). Tra le altre opere: Modi di vedere (Bollati Boringhieri, 2004), Questione di sguardi (Il Saggiatore, 1998) e Sul guardare (Bruno Mondadori, 2003).

____________________________
 

Jean Mohr, fotografo svizzero,(1925-2018) è stato compagno di strada e di avventure di John Berger, suo collaboratore e ‘complice’ a partire dal 1962, quando si incontrarono per la prima volta a Ginevra. Risale a quell’anno l’avvio di un sodalizio professionale che, nel tempo, si è trasformato anche in una formidabile amicizia. 
Ne sono nati una serie di libri la cui importanza politica, sociale, artistica e letteraria resta non solo attuale, ma tuttora anticipatrice: A Fortunate Man: The Story of a Country Doctor (1967), inedito in Italia, A Seventh Man (1975) [Il settimo uomo, Contrasto, 2017], Another Way of Telling. A Possible Theory of Photography (1982), da noi ancora inedito. 

Un uomo fortunato. Il ritratto toccante e avvincente di una pratica della medicina generale che tende a scomparire
Un uomo fortunato. Il ritratto toccante e avvincente di una pratica della medicina generale che tende a scomparire
Un uomo fortunato. Il ritratto toccante e avvincente di una pratica della medicina generale che tende a scomparire
Un uomo fortunato. Il ritratto toccante e avvincente di una pratica della medicina generale che tende a scomparire
Un uomo fortunato. Il ritratto toccante e avvincente di una pratica della medicina generale che tende a scomparire
Un uomo fortunato. Il ritratto toccante e avvincente di una pratica della medicina generale che tende a scomparire
Un uomo fortunato. Il ritratto toccante e avvincente di una pratica della medicina generale che tende a scomparire

Una conversazione con Maria Nadotti sul volume "Un uomo fortunato" da lei curato

Condividi post
Repost0
13 giugno 2023 2 13 /06 /giugno /2023 10:55
Bill Clegg, Novanta giorni, Il Saggiatore

Novanta giorni (Ninety Days, nella traduzione di Sara V. Barberis), pubblicato da Il Saggiatore, nel 2013, è un libro memoir di Bill Clegg, noto agente letterario e scrittore statunitense, una preziosa testimonianza che si pone come seguito ideale dell’autobiografico “Ritratto di un tossico da giovane” (Einaudi) dello stesso autore.
Se in quest'ultimo testo vi è la storia dell'evolversi di una grave forma di dipendenza patologica in cui si intrecciano abuso di sostanze ed eccessi sessuali e della descrizione lucida del modo in cui si strutturano e si mantengono le "abbuffate" di droga e sesso, con l'evolversi di gravi manifestazioni psicopatologiche (tipiche di chi fa uso massiccio di sostanze stimolanti di tipo dopaminergico in maniera massiccia e in un arco di tempo limitato, con subentranti assunzioni), in "90 giorni" troviamo l'altra faccia della medaglia e cioè, dopo un periodo di permanenza prolungato in una struttura riabilitativa residenziale in cui Bill è stato tenuto controllato e protetto, in sostanza avulso dal contesto sociale, il difficile percorso verso la sobrietà nella condizione di chi è ora "libero", nel senso di essere costretto a fronteggiare tutti i dilemmi dell'autodeterminazione: qui, dunque, la sobrietà è uno stato che non deriva semplicemente dall'astenersi dall'uso di sostanze (e di tutti i comportamenti correlati), ma dalla capacità (tutta da costruire) di combattere le forze interiori e i riflessi condizionati che spingono verso la ricaduta (relapse, come si dice in Inglese).

Alcuni passaggi sono eloquenti, come quello a pag. 92 (e seguenti) in cui Bill descrive la sua terza ricaduta.

"Anche se passano otto ore dalla telefonata iniziale, nulla mi distoglie dalla droga. E' come se avessi premuto un interruttore e fossi in pilota automatico. Nessuna telefonata, ripensamento o pensiero delle conseguenze può dissuadermi dal consumare droga".
 

E, in un attimo, undici giorni di sobrietà, si annullano e Bill deve ricominciare il conteggio da zero.
 

Come già con il suo prequel, ci troviamo di fronte ad una narrazione autobiografica tesa e vibrante, a tratti anche dura, senza sconti per il lettore (e nemmeno per colui che scrive che si mette a nudo sino all'osso, senza pudore, affrontando catarticamente la piena confessione, sino ai dettagli più scioccanti) e che consente di guardare con lucidità sin nelle pieghe più riposte della mente di un tossico in riabilitazione che - come in un gioco dell’oca - percorre la sua via verso la stabilizzazione dall’uso di ogni droga, costellata di trappole e di fallimenti, alla ricerca della sua prima meta (che non sarà mai quella definitiva) e cioè del raggiungimento dell'obiettivo di novanta giorni consecutivi di astensione dall'uso di qualsiasi droga (incluso l'alcool) ovvero di "sobrietà" che una delle parole cardine di A.A.. Da qui il titolo.
Dietro questo doloroso (e faticoso) percorso che si muove all'interno della filosofia degli Alcoolisti Anonimi (A.A.) (che, con piccole variazioni ed aggiustamenti, può essere applicata a tutte le diverse forme di dipendenza patologiche, ivi incluse quelle non farmacologiche: e si veda a tal riguardo un libro - pure memoir - di recente pubblicazione, dal titolo "Azzardo" che racconta la storia di una donna dedita al gioco con le slot e soccombente ad una devastante dipendenza) c’è la ricerca della Verità - per quanto dolorosa possa essere - e della solidarietà di altri e verso altri con i quali si condivide lo stesso percorso.
Ogni tossicodipendente sarà per il resto della sua vita “riabilitazione” e la sua sobrietà dipenderà esclusivamente dalla capacità di comunicare senza infingimenti e menzogne le proprie difficoltà e le proprie debolezze all’interno della complessa relazione che si viene a creare tra il tossico in riabilitazione, il proprio sponsor e altri tossici che magari stanno peggio e nei cui confronti può attivarsi il senso di responsabilità e la sollecitudine (secondo il modello originario scaturito dall'incontro di due alcolisti (tra i quali il co-fondatore Bill W.) che avevano smesso di bere e cercavano di mantenere la propria sobrietà). 
Tutto questo mediato dalle “stanze” dove avvengono le riunioni di auto-aiuto in cui si concretizza la filosofa degli AA con molteplici occasioni di incontro, di confronto e di discussioni, in cui ciascuno è incoraggiato a partecipare, mantenendo l'anonimato e che poi diventano anche delle stanze mentali, profondamente interiorizzate.
Novanta giorni é, infine, un libro che può interessare chiunque perché ragiona dell’importanza estrema della ricerca della verità nelle relazioni interpersonali.


(Risguardo di copertina) Novanta giorni è l'obiettivo. Novanta giorni puliti per uscire dal buio, solo novanta giorni. La sostanza di Bill è il crack. Ma le crisi di astinenza, le ricadute, il rehab si ripetono per ogni dipendenza. Novanta giorni è infatti la storia di chiunque sia caduto, almeno una volta, in quella spirale. È la storia di persone interrotte che insieme cercano di mettere ordine nelle loro vite. I nuovi amici di Bill sono ex tossici che provano, un giorno alla volta, a non farsi. Una comunità che si incontra, discute, partecipa a riunioni settimanali, s'incoraggia con entusiasmo sportivo e premura fraterna, una rete di solidarietà che condivide un obiettivo: la libertà dai lacci della compulsione. Legami che per il vecchio Bill, brillante agente letterario diviso fra cocktail mondani e attici sulla Fifth Avenue, sarebbero stati impensabili. Nei reticoli di Manhattan si incrociano i destini di Polly, insegnante elementare cocainomane, che non riesce a smettere perché vive con la sua gemella Heather che ancora si droga; Lotto, figlio adottivo di una coppia di gioiellieri ebrei, che ha girato dodici centri di riabilitazione e pensa di poter prendere in giro la vita ancora una volta; Asa, giovane studente, rosso di capelli, innamorato di Bill, salvifico e silenzioso. E Bill, che grazie ai suoi nuovi amici impara a raccontare la verità, la sua verità.
 

Bill Clegg

L’autore. Bill Clegg, agente letterario americano, è autore dei memoir Ritratto di un tossico da giovane (Einaudi, 2011) e 90 giorni (Il Saggiatore, 2013). Il suo primo romanzo, Mai avuto una famiglia (Bompiani, 2016), è stato selezionato per il National Book Award, il Man Booker Prize, la Andrew Carnegie Medal ed è stato definito uno dei migliori libri del 2015 tra gli altri dal Library Journal, da Booklist, dal Guardian, da Kirkus Reviews.

Bill Clegg, Ritratto di un tossico da giovane, Einaudi

Questo memoir che racconta la storia tossicomanica di Bill Clegg, prima che entrasse nel mondo della riabilitazione, è interessante, ma è una lettura davvero faticosa, capace di mostrare, quasi al microscopio i meccanismi e le dinamiche interiori che scattano quando uno è preso dalla voglia smodata e irrefrenabile di consumare la sua droga preferita e, in questo caso, si tratta del "crack", che - in forma di cristalli - si fuma in apposite pipette con il principio attivo che, in funzione della manipolazione chimica che ha subito per essere tramutato in cristalli, penetra la barriera emato-cerebrale, provocando degli effetti massivi e rapidissimi che, dopo poco svaniscono. Da qui la tendenza del consumatore di rimanere intrappolato nel meccanismo devastante del craving che lo spinge verso un consumo ripetuto a brevissimi intervalli di tempo, magari con la contemporanea assunzione di alcool e di altre sostanze psicoattive.
La dipendenza dal crack è una delle più devastanti in assoluto, poiché il consumatore immerso in un modello di consumo detto anche drug-binge (parola che che in italiana può essere tradotta con "abbuffata") è capace di spendere nel giro di pochissimo tempo quantità enormi di denaro, indebitandosi sino al collo ed incurante delle conseguenze su se stesso e sugli altri, familiari, parenti e amici.

E, naturalmente, il memoir di Bill Clegg è intessuto anche di ricordi antichi (storie infantili ed adolescenziali), il che è corretto, poiché il percorso che porta una persona (e in questo caso è Bill) a coinvolgersi in esperienze di uso dipendente di sostanze psicoattive, nasce da lontano, dalle dinamiche familiari, dal modo in cui si è costruito il rapporto con il corpo, da come si sono svolte le prime esperienze di masturbazione (e, soprattutto, se queste hanno assunto un carattere compulsive e sono state oggetto di un non-detto).
 

«L’orrore strisciante delle ultime settimane: ricascarci; mollare Noah, il mio ragazzo, al Sundance Film Festival quasi una settimana prima; mandare una e-mail alla mia socia in affari, Kate, dicendole di fare quello che le pareva della nostra attività, che io non sarei tornato; entrare e subito uscire da una clinica di riabilitazione di New Canaan, nel Connecticut; passare una sfilza di notti all’hotel 60 Thompson per poi buttarmi a capofitto nello scabroso clima drogato dell’appartamento di Mark, con gli sbandati che rimediano un po’ di crack gratis quando qualcuno organizza un’abbuffata. L’orripilante film dei miei recenti trascorsi mi balena dietro le palpebre, e il futuro senza una bustina, nella consapevolezza che passeranno ore prima di vederne un’altra, si staglia con l’evidenza del nuovo giorno che sorge».

Come Bill Clegg, giovane agente letterario di successo, si lascia travolgere dalla tossicodipendenza e perde tutto, dal lavoro agli affetti, sprofondando in una vita fatta di mille alberghi tutti uguali, voli aerei mai presi, avidità e paranoia, incontri maschili e sesso consumato senza ombra di passione.
Un memoir lacerante: l'esplorazione di una deriva cieca, narrata senza facili giustificazioni e priva di autocompiacimento.
La storia di una dipendenza assoluta, senza un vero perché.
Una discesa negli abissi della paranoia, raccontata con l'implacabile precisione ed eleganza della grande letteratura.

Di quest'opera hanno detto

«Bill Clegg ha scritto un memoir snello, teso, rutilante. Anche se sappiamo da subito come dovrebbe finire la storia, è difficile credere che il protagonista riuscirà a sopravvivere all’ordalia che descrive con tanta, terrificante ricchezza di dettagli».
Jay McInerney

«Questa storia di un uomo – quasi sempre rinchiuso in camere d’albergo e impegnato in una guerra straziante con se stesso – è destinata a diventare un vero e proprio classico della letteratura sulla droga».
Irvine Welsh

Alessandra Mureddu, Azzardo, Einaudi

Azzardo di Alessandra Mureddu (Einaudi, Collana "Gli Unici, 2023) viene presentato come un romanzo per il quale vige la formula “ogni riferimento a persone esistenti e a persone è puramente casuale”.

Ma, in realtà, si tratta di una storia fortemente autobiografica, come del resto ha rivelato l’autrice in successive interviste.
C’è il racconto di anni e anni di dipendenza dal gioco d’azzardo (che oggi con una recente definizione onnicomprensiva viene definito "ludopatia"), soprattutto da quello istantaneo e fulmineo delle macchinette, ovvero dalle slot machine.
Sono descritti nel libro tutti i passaggi di un’esistenza votata al gioco e alla dissipazione, apparentemente alla ricerca della vincita e della mitica cascata di monetine, ma in realtà dolorosamente porterà verso la sconfitta e la ripetizione coatta di questa esperienza.
Tutti i momenti e i passaggi vengono ritratti lucidamente nella loro essenza, compreso il disfacimento esistenziale che fa da inevitabile corteo alla ludopatia, come a quasi tutte le altre forme di dipendenza patologica.
È una lettura faticosa e dolente, per alcuni versi irritante.
Io stesso che ho lavorato per quasi tutta la mia vita professionale a contatto con le dipendenze patologiche e che dovrei avere gli strumenti per comprendere mi sono sentito fortemente irritato dal racconto, soprattutto dalla debolezza intrinseca di questa donna incapace di resistere al richiamo del gioco.
Come recita il Verbo degli Alcolisti Anonimi, applicabile a tutte le forme di dipendenza, soltanto il riconoscimento quotidiano della propria debolezza e della propria inemendabile condizione di dipendente possono essere d’aiuto nel fronteggiare - giorno dopo giorno - il richiamo illusorio dell’oggetto della dipendenza e dunque proteggere dallo spettro della ricaduta.

L’astinenza va conquistata giorno dopo giorno senza lasciarsi mai travolgere dalla hybris, con l'aiuto di un'implacabile ricerca della Verità, davanti a se stessi e davanti agli altri.

 

Per me si è trattato di una lettura di studio piuttosto che di svago o intrattenimento.

 

 

(Soglie del testo) «Entro nella sala col passo trionfale di chi va a riprendersi il mondo. Le banconote da cinquanta, a colpi di un euro al secondo, spariscono nella fessura una via l’altra. Le conchiglie, quando escono, fanno pof, come lo schiocco di labbra di un pesce».

A quarantun anni, nella pienezza della propria vita, una donna decide di salvare il padre, avvocato e giocatore patologico. E salvarlo significa addentrarsi nel mondo delle sale da gioco: un mondo senza finestre in cui non si distingue il giorno dalla notte, e neppure chi vince da chi perde, perché ogni vincita è destinata a finire nella fessura della slot: se ti è andata bene vorrai vincere di piú, se stai perdendo continuerai a giocare per rifarti. Cosí, la figlia che voleva salvare il padre si ritrova a dover salvare se stessa dalla malattia del gioco, che la trascina in un gorgo senza fine. Il conto si svuota, i capelli si imbiancano, il corpo sparisce sotto una larga tunica nera. Le relazioni, gli amici, i colleghi, la famiglia: tutto viene intaccato in nome di questa febbre morbosa. Gli ori di famiglia rubati ai genitori e svenduti nei «Compro oro» per una manciata di contanti da dilapidare in fretta.

Se può esserci salvezza, passerà forse dai Dodici Passi del Programma di recupero per i Giocatori Anonimi, ma le ricadute eroderanno ogni volta qualcosa di piú profondo. O forse la salvezza s’insinuerà in un sogno o in un piccolo gesto come quello del padre nella pagina finale del libro.

A raccontare questa storia, la sua storia, è una donna che ha superato da poco i quarant'anni. La sua voce è esatta, limpida, dura, il suo sguardo senza filtri. La sua mano non fa che infilare banconote nella fessura delle slot e premere il tasto start, per anni. Mentre la sua vita va a rotoli, lei aspetta «l'eco prolungata del solfeggio, le schegge di luce che si propagano al monitor». Perché ogni vincita è un battito in piú nel petto. Alessandra Mureddu racconta dall'interno, con una scrittura infiammata, potentissima, un mondo che pochi conoscono, eppure descrive un sentimento in cui è impossibile non rispecchiarsi: la dipendenza di cui parla - che passa dalle macchinette alle relazioni sessuali e affettive, al padre, al cane, e potrebbe estendersi a qualsiasi cosa - è il segno del nostro tempo. Azzardo è uno sfolgorante e feroce romanzo su ciò che abbiamo di piú umano: le nostre debolezze.

 

Per approfondire sui temi del gioco d'azzardo rinvio a questi miei articoli su questo stesso blog

Condividi post
Repost0
6 giugno 2023 2 06 /06 /giugno /2023 08:44
Robert Heinlein, Non temerò alcun male, Bompiani

Nel 1970 Robert Heinlein, uno dei più grandi maestri della SF pubblicò un opera che si colloca tra quelle in cui egli riflette sul fine vita, Non temerò alcun male (I Will Fear No Evil), il cui titolo originale è tratto dal Salmo 23:4 della Bibbia. Ricordo che lo lessi (lo divorai) nella forma di un tascabile Bompiani (uscito nel 1977) e, in effetti, la sua prima edizione italiana era stata fatta da Bompiani, nel 1972

Qui, in un mondo sovrappopolato nel XXI secolo, un tycoon, molto anziano e gravemente ammalato decide di avvalersi di un'avveniristica tecnologia per sfuggire al destino che l'attende e che gli consentirà di trasferire la sua mente in un corpo giovane.

Johann Sebastian Bach Smith, nato come Schmidt, ormai novantenne e decrepito, è tenuto in vita da un supporto medico, sicché decide di far trapiantare il proprio cervello in un nuovo corpo, offrendo un milione di dollari ai congiunti di un donatore in stato di morte cerebrale.

Non appena le circostanze lo consentono viene effettata l'operazione (a Heinlein non interessa dare spiegazioni tecnologiche sul perché e sul per come sia possibile compiere una simile cosa, non si sofferma sui dettagli tecnici: dice che è possibile e basta. E il lettore deve seguirlo). Le circostanze per dar corso alla "rinascita" di Schmidt sono che sia disponibile un corpo recipiente, in buona salute e in stato di morte cerebrale: la sorte vuole che il corpo donatore sia quello di una giovane donna che è Eunice Branca, sua segretaria che è stata uccisa da un balordo, e Schmidt nelle clausole del contratto avevo omesso di specificare controindicazioni circa il sesso del recipiente.
Quindi, al suo risveglio, Schmidt si ritrova dentro il corpo di una donna e, per giunta, molto avvenente e desiderabile.

Robert Heinlein, Non temerò alcun male, Bompiani (tascabili), 1977

Inizia così a vivere una nuova vita, avendo assunto l'identità di Joan Smith, guardando il mondo attraverso gli occhi di una donna, ma rimanendo uomo di esperienza e di appetiti sessuali assolutamente rinvigoriti (anche se orientati per necessità di cose verso il sesso maschile). Questo genera delle situazioni a volte imbarazzanti, a volte comiche, soprattutto quando egli si ritrova a confrontarsi con il suo più fedele collaboratore che è il suo avvocato di sempre Jakob Moshe Solomon) ed è nel fiore degli anni. Da donna (con quell'alchimia ormonale) si ritrova a desiderare un contatto sessuale con lui, ma la sua mente è quella di un uomo: insomma, Schmidt dovrà confrontarsi con grandi difficoltà interiori, sino a compiere il grande passo, dopodiché finirà per sposarlo.

Molti interrogativi restano aperti, tuttavia: cede a questo impulso perché è il corpo da donna che vuole così, oppure è lui - ancora uomo nella mente - che in modo inatteso - scopre delle valenze omosessuali dentro di sé?

Sin dall'inizio le cose si complicano ancor di più, poiché  probabilmente per via della persistenza della mente che aveva abitato quel corpo, la personalità del corpo recipiente si risveglia, iniziando un dialogo con Schmidt, prima occasionale e a sprazzi, poi sempre più costante e serrato.
Quindi, nel rapporto (che presto diventa stabile relazione) con l'uomo sono adesso in due ad interagire con una fantasmagoria di effetti. Il costante dialogo con Eunice Branca, aiuta Schmidt a destreggiarsi nella sua nuova identità.

E, alla fine, colpo di scena finale, Jakob Moshe Solomon muore all'improvviso per un ictus e, per una strana alchimia (anche qui Heinlein non ci fornisce alcuna spiegazione) entra nel corpo di Eunice Branca che già ospita la mente di Schmidt e quella di Eunice e quindi nel finale si trovano tutti e tre assieme a dialogare e a confrontarsi.
 

Ricordo che questo romanzo mi entusiasmò, al pari di "Straniero in terra straniera" che lessi subito dopo: ma questo forse ancor di più, perché Heinlein affrontava il tema del fine vita e dell'immortalità che del resto compare in altre opere come in Lazarus Long, l'immortale oppure nel precedente I figli di Matusalemme.

E qui si tratta di un Heinlein più maturo che affronta i grandi temi filosofici della vita e della morte, ben lontano da quello delle prime opere "spaziali", tipo "La fanteria dello spazio", considerato una vera pietra miliare nel contesto della Space Opera militare.

Perché tutta questa tiritera su Heinlein?

Ieri, scartabellando Netflix, mi sono imbattuto tra i new release in un film non troppo recente (USA, 2015) il cui titolo è "Self/less", con un buon cast di attori e di buona fattura.

Le battute d'inizio della pellicola mi hanno fatto pensare irresistibilmente a "Non temerò alcun male", perché anche qui un ricco tycoon, ammalato gravemente, con metastasi diffuse e destinato a morire di lì a poco, decide di rivolgersi ad una società (quasi clandestina e solo da pochi conosciuta per via del passaparola) che si rivolge ad una audience di clienti facoltosi e motivati per aiutarli a sopravvivere alla propria prossima morte. 

Self/less

L'industriale ultramilionario Damian Hale, maestro nell'arte del potere, allontanato dalla figlia Claire, si scopre malato di cancro. Di fronte alla propria malattia terminale, viene a sapere di un'organizzazione scientifica segreta che gli propone la creazione in laboratorio di un corpo sano in cui la sua brillante mente potrà continuare a vivere, secondo gli studi di transumanesimo del professor Jensen. Dopo aver inscenato la sua morte pubblica di fronte all' amico Martin O'Neil e al mondo, Damian si sottopone alla procedura si trasferimento della sua mente in un corpo giovane (che ritiene sia stato clonato), detta "shedding", risvegliandosi secondo le promesse in un nuovo corpo giovane. Successivamente ad un periodo di riabilitazione, inizia la sua nuova vita, dovendo però dipendere dall'organizzazione che gli fornisce misteriose pillole antirigetto avvisandolo di possibili allucinazioni post intervento che presto tuttavia spariranno.


La parte iniziale del film potrebbe essere stata presa di peso dal romanzo di Heinlein, anche se poi i dettagli e l'evoluzione successiva divergono fortemente dal modello originario. 

Poi, tuttavia, la storia di Self/less diverge radicalmente da quella raccontata magistralmente (e con grande ironia) da Robert Heinlein. Cosa accomuna, in realtà, il romanzo e questo film (come anche un altro film simile che mi è capitato di vedere recentemente sempre su Netflix e di cui in questo momento - sfortunatamente - non ricordo il titolo)?

Simbolo del Transumanesimo

Credo che sia il tema del "transumanesimo" (ovvero del "Transhumanism") di cui questa, presa da wikipedia, è una possibile - sintetica definizione: Il transumanesimo (o transumanismo, a volte abbreviato con >H o H+ o H-plus) è un movimento culturale che sostiene l'uso delle scoperte scientifiche e tecnologiche per aumentare le capacità fisiche e cognitive e migliorare quegli aspetti della condizione umana che sono considerati indesiderabili, come la malattia e l'invecchiamento, in vista anche di una possibile trasformazione post umana.

Quando Heinlein scrisse il suo libro di transumanesimo ancora non si parlava del tutto e il termine non era stato nemmeno coniato: e, quindi, egli è stato, da questo punto un autentico precursore e un visionario. Ma questa è, del resto, l'essenza della più pura declinazione della SF.

Ho trovato in rete, un articolo in cui, nel contesto di considerazioni più ampie, viene tracciato un parallelismo tra "Non temerò alcun male" e il transumanesimo: 

"La scienza sta vivendo oggi un pericolo crescente: quello di trasformarsi in tecnoscienza tendente ad abbandonare l’approccio olistico del disallineamento fisico della persona umana e ad eliminare il rapporto medico-malato. Stanno aprendosi varchi di consenso a teorie che si inscrivono nella corrente del Transumanesimo  ipotizzante un trasferimento dei dati di coscienza degli umani dentro una memoria delocalizzata totalitaria, una specie di titanico CLOUD da utilizzare per una successiva reviviscenza del contenuto di una mente dentro altri corpi e/o dispositivi esogeni. Sul tema, fanno pensare le implicazioni tecno-etiche dello scrittore di fantascienza Robert Heinlein nel suo memorabile libro NON TEMERO’ ALCUN MALE nel quale viene narrata la cascata di effetti collaterali rivenienti da un trapianto di cervello di un uomo in un corpo di donna. Il Transumanesimo sta per essere a sua volta sorpassato a sinistra dalla corrente dell’INTRASPECISMO  dove la differenza tra umani e animali scompare in nome della eliminazione del pensiero antropocentrico..."1

Il film non tributa nessun credito letterario, d'altra parte. C'è da dire anche che la SF letteraria, nel corso degli anni, ha creato dei modelli che sono entrati con forza nell'immaginario collettivo e che, quindi, poi finiscono per permeare in modo originale altre opere oppure danno vita a nuovi modi di vedere, senza che si abbia più alcuna consapevolezza della loro scaturigine.

Guardate questo film (che merita), ma soprattutto leggete il romanzo di Heinlein!

 

__________________________________________

Note

1. Tratto dall'articolo Gli effetti delle pandemie e la tecnoscienza che incombe (dettiescritti.it). Maiuscoletti nel testo originario.

Condividi post
Repost0
18 maggio 2023 4 18 /05 /maggio /2023 11:01
Stephen King, Fairy Tale, Sperling&Kupfer, 2022

Qualche tempo fa, quando ho cominciato la lettura dell'ultimo romanzo di Stephen King, Fairy Tale (nella traduzione di Luca Briasco), pubblicato nel 1922 da Sperlinga&Kupfer (Pandora), ho scritto nel mio profilo social: “Con enorme piacere ho cominciato la lettura dell’ultimo romanzo di Stephen King, pubblicato in traduzione. Mi sta piacendo moltissimo e lo sto centellinando per non arrivare subito alla fine. Richiede una fine degustazione”.

E adesso che sono arrivato alla frase fatidica “The End”, mi sono dovuto commiatare dai suoi personaggi e soprattutto dall’avventuroso protagonista Charles Reade, che - per un concorso di circostanze - trova l’accesso ad un mondo fantastico, il Reame di Enpis - un tempo bellissimo, ma ora preda di una maledizione e corrotto, di cui Charlie in persona diverrà il salvatore e della sua fedele cagna di pastore tedesco Radar (Rades), ricevuta in eredità da un Howard Bodwitch, suo vicino di casa (che vive in una dimora dall'aspetto misterioso in cima ad una collina, un po' tetra e spaventosa, tanto che viene indicata dai ragazzi del quartiere come "la casa di Psycho"), primo scopritore di questo mondo, uomo dai molti misteri, e che proprio a Charlie Reade trasferisce la conoscenza del mistero e della meraviglia di quest'altro mondo.


A tutti gli effetti, Fairy Tale potremmo definirlo un romanzo "dark-fantasy".

Le ultime cento pagine le ho letteralmente centellinate, proprio perché non sarei mai voluto arrivare alla parola fine di questa avventura che tanto mi ha fatto immergere nella magia di una narrazione assolutamente all’altezza de Il Talismano (scritto a quattro mani con Peter Staub) e di altri romanzi del migliore King (come ad esempio, con una tematica affine, è stata la narrazione di "22/11/1963", in cui il protagonista, essendogli data la possibilità di spostarsi indietro nel tempo, tenterà di evitare l'assassinio di J. F. Kennedy).
Eppure ogni storia finisce, anche la più bella.
Ma potrà essere ri-narrata e, nel caso, ri-letta più volte.
Il volume è corredato dalle splendide splendide illustrazioni di due diversi disegnatori: i capitoli pari con quelle di Gabriel Rodriguez che ha già collaborato con Joe Hill nel suo NOS4A2 e per la realizzazione di molte graphic novel e i dispari con quelle di Nicolas Delort.
I disegni accrescono l’atmosfera horror-fiabesca, secondo la migliore tradizione delle narrazioni fantastiche.
Ci sono qui molteplici suggestioni e citazioni: tra queste anche un indubbio omaggio alle storie dei Fratelli Grimm (la fiaba di Tremotino, viene citata più volte) a H.P. Lovecraft (con alcuni cupi riferimenti alle tematiche dei "Grandi antichi", a proposito dal mostro che minaccia di uscire dalle profondità corrotte del regno di Enpis, quando le due lune in cielo si congiungeranno) e ad altre apocalissi. 
Per esempio, uno dei nomi che non deve essere mai pronunciato ad alta voce - e nemmeno bisbigliato, se è per questo -  nel Reame di Enpis è Gogmagog, una parola proibitissima che suscita negli astanti un terrore profondo e senza nome: facendo un minimo di ricerche si scoprirà che il termine si ispira direttamente al Libro dell’Apocalisse secondo San Giovanni.
Ho trovato queste indicazioni al riguardo: con l’espressione ‘goga e magoga’ si indica un luogo leggendario e favoloso, in qualche angolo remoto della Terra.
I nomi Gog e Magog appaiono nell’Apocalisse di San Giovanni, dove rappresentano una terribile minaccia, ma anche nel libro di Ezechiele, in cui Gog, signore di Magog, è un principe di cui si profetizza che si schiererà contro Israele.
Ma su Wikipedia si trova anche il riferimento ad un gigante possente che avrebbe fondato Albione: 

Gogmagog (anche Goemagot, Goemagog, Goëmagot e Gogmagoc) era un gigante leggendario, presente nella mitologia gallese e successivamente in quella britannica. Secondo la Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth (XII secolo), Gogmagog era un gigantesco abitante di Albione, gettato da una scogliera durante un incontro di lotta da Corineo, un compagno di Bruto di Troia. Gogmagog fu l'ultimo dei giganti che abitavano la terra di Albione, prima dell'arrivo di Bruto e dei suoi uomini. Secondo l'etimologia prevalente, Il nome "Gogmagog" deriva dai personaggi biblici Gog e Magog

La locuzione ha oggi perso il suo significato apocalittico, ma ha dato origine anche a un’altra espressione: «andare in goga e magoga», usata per descrivere il cadere dalle nuvole, perdere l'orientamento. 

 

Fairy Tale by Stephen King

(Soglie del testo) Un ragazzo, il suo cane, la discesa in un mondo magico e oscuro. Un'eccezionale favola dark. Benvenuti nel lato oscuro del «C'era una volta»
Charlie Reade è un diciassettenne come tanti, discreto a scuola, ottimo nel baseball e nel football. Ma si porta dentro un peso troppo grande per la sua età. Sua madre è morta in un incidente stradale quando lui aveva sette anni e suo padre, per il dolore, ha ceduto all'alcol. Da allora, Charlie ha dovuto imparare a badare a entrambi. Un giorno, si imbatte in un vecchio – Howard Bowditch – che vive recluso con il suo cane Radar in una grande casa in cima a una collina, nota nel vicinato come «la Casa di Psycho». C'è un capanno nel cortile sul retro, sempre chiuso a chiave, da cui provengono strani rumori. Charlie soccorre Howard dopo un infortunio, conquistandosi la sua fiducia, e si prende cura di Radar, che diventa il suo migliore amico. Finché, in punto di morte, il signor Bowditch lascia a Charlie una cassetta dove ha registrato una storia incredibile, un segreto che ha tenuto nascosto tutta la vita: dentro il capanno sul retro si cela la porta d'accesso a un altro mondo. Una realtà parallela dove Bene e Male combattono una battaglia da cui dipendono le sorti del nostro stesso mondo. Una lotta epica che finirà per vedere coinvolti Charlie e Radar, loro malgrado, nel ruolo di eroi. Dal genio di Stephen King, una nuova avventura straordinaria e agghiacciante, una corsa a perdifiato nel territorio sconfinato della sua immaginazione.

 

Hanno detto
«Per King non c'è mai confine tra i mostri che abitano la nostra vita quotidiana e quelli che potrebbero esistere in mondi paralleli, o persino nel nostro. Ma il punto è che sempre King riesce a creare qualcosa di nuovo. A raccontare da un altro punto di vista. A illuminare un altro pezzetto di realtà.» - Antonella Lattanzi, la Lettura
«Fairy Tale sa parlare bene della sofferenza, di una disperazione che fa stringere un patto con Dio: “Se lo fai per me, chiunque tu sia, farò qualcosa per te”.» - Thea Pellegrini per Maremosso

 

Stephen King

L'autore. Stephen King, nato nel 1947 a Portland nel Maine (USA), è autore di romanzi e racconti best seller che attingono ai filoni dell’orrore, del fantastico e della fantascienza, ed è considerato un maestro nel trasformare le normali situazioni conflittuali della vita – rivalità fra coetanei, tensioni e infedeltà coniugali – in momenti di terrore. Quando è ancora piccolo, sua madre deve far fronte a grandi difficoltà, perché il padre uscito di casa per fare una passeggiata non fa più ritorno. Nel 1962 inizia a frequentare la Lisbon High School e comincia a spedire i suoi racconti a vari editori di riviste, senza però alcun successo concreto. Conclusi gli studi superiori entra all'Università del Maine ad Orono, dove gestisce per un paio d'anni una rubrica all'interno del giornale universitario. Nel 1967 termina un primo racconto breve a cui fa seguito, qualche mese dopo, il romanzo La lunga marcia che riceve giudizi lusinghieri. Sottopone Carrie alla casa editrice Doubleday e ottiene un assegno di 2500 dollari come anticipo per la pubblicazione del romanzo.
A maggio arriva la notizia che la Doubleday ha venduto i diritti dell'opera alla New American Library per 400.000 dollari, metà dei quali spettano di diritto all'autore. Così, a ventisei anni, Stephen King lascia l'insegnamento per dedicarsi alla professione di scrittore. Da quel momento la sua carriera non avrà più interruzioni. Nel 1971 si sposerà con Tabitha, conosciuta due anni prima lavorando nella biblioteca dell'Università. Con un'operazione innovativa, il 14 marzo 2000 diffonderà esclusivamente su Internet il racconto Riding the Bullet. Nell'autunno dello stesso anno pubblicherà On writing: autobiografia di un mestiere, un'autobiografia e una serie di riflessioni su come nasca la scrittura. Tra i suoi libri più noti si ricordano Shining (1976; il film, del 1980, venne diretto da Stanley Kubrick); La zona morta (1979; versione cinematografica del 1983, per la regia di David Cronenberg); Christine la macchina infernale (1983; il film, dello stesso anno, è di John Carpenter); It (1986, il film è del 1990); Misery (1987; noto in Italia con il titolo Misery non deve morire, la pellicola è stata realizzata da Rob Reiner nel 1990), Mr Mercedes (2014). Tra gli altri ricordiamo: Cuori in Atlantide (2000), La casa del buio (2002), Notte buia, niente stelle (2010), Chi perde paga (2015), Fine turno (2016), The Outsider (2018), Elevation (2019), L'istituto (2019), Later (2021) e Fairy Tale (2022). È del 2016 la nuova edizione aggiornata di Danse macabre, pubblicato da Frassinelli con l'introduzione e cura di Giovanni Arduino. A Stephen King è stata assegnata nel 2003 la National Book Foundation Medal per il contributo alal letteratura americana, e nel 2007 l'Associazione Mystery Writers of America gli ha conferito il Grand Master Award.

Condividi post
Repost0
12 maggio 2023 5 12 /05 /maggio /2023 10:13

E' questo che non avremmo mai potuto capire a Oxford… perché va oltre la ragione. Non è razionale. (…) Questo è ciò che ho imparato negli ultimi sei anni, contrariamente a quello che insegnano a Oxford: il potere della non-ragione. Tutti dicevano… e per tutti intendo persone come me... tutti dicevamo: "Oh, è un tipo orribile, Hitler, ma non è completamente malvagio. E guardate le sue imprese: Dimentichiamo queste brutalità medievali antisemite, passeranno". Ma il punto è che non passeranno. Non si possono scindere dal resto. Sono parte integrante del tutto. E se l'antisemitismo è malvagio, è tutto malvagio.

Robert Harris, Monaco, p. 259

Robert Harris, Monaco, Mondadori, 2018

Monaco (Munich, nella traduzione di Annamaria Raffo) di Robert Harris, pubblicato da Mondadori (Omnibus), nel 2018, racconta della Conferenza di Monaco del settembre 1938, mettendo in scena una quantità di personaggi storici a cui sono mescolati alcuni caratteri fittizi (pochi a dire il vero), come il britannico Hugh Legat e il tedesco Paul von Hartmann.
Leggere questo romanzo è come immergersi in un capitolo di storia - ormai non tanto recente - e offre l’opportunità di una riflessione a proposito del fatto che gli esiti di breve termine delle azioni diplomatiche non sono quasi mai lungimiranti.
Per esempio, proprio la Conferenza di Monaco diede alla Germania di Hitler la possibilità di rafforzarsi ulteriormente con il beneplacito di Gran Bretagna (con il suo Primo ministro Neville Chamberlain) e della Francia, rappresentata dal suo plenipotenziario Daladier.
L’obiettivo di Francia e Inghilterra era scongiurare lo scoppio immediato di una guerra con la Germania, se questa avesse annesso il territorio dei Sudeti della Cecoslovacchia.
L’esito della Conferenza di Monaco, dopo veloci trattative nelle quali ebbe un peso la mediazione di Mussolini, fu la concessione alla Germania di potere occupare in un tempo di dieci giorni quel territorio rivendicato perché abitato da tre milioni e mezzo di Tedeschi, con la condizione di rispettare alcune indicazioni, in caso di divergenza, scaturenti da una commissione internazionale all’uopo costituita.
Tutto fu deciso senza ammettere alla discussione la delegazione cecoslovacca che poi fu indotta ad accettare le decisioni prese, pena un’immediata invasione.
E i giochi furono fatti. Le due massime potenze che avrebbero potuto contrastare l'espansionismo della Germania di Hitler, in definitiva, si scrollarono di dosso con quegli accordi (scellerati) le responsabilità precedentemente assunte nei confronti della Cecoslovacchia e, come Ponzio Pilato, molto concretamente, della faccenda, molto ipocritamente, se ne lavarono le mani.
Chamberlain e Daladier ritornarono in patria, acclamati dai rispettivi popoli come eroi che avevano scongiurato la guerra.
Hitler ebbe una “formale” autorizzazione a proseguire indisturbato nelle sue politiche espansionistiche nel cuore dell’Europa e, nello stesso tempo, ebbe agio di rafforzare ulteriormente la sua corsa agli armamenti, a dispetto delle prescrizioni del Trattato di Versailles, ancora in vigore.
La guerra arrivò più tardi, poco più di un anno dopo, nel 1939 con l’invasione della Polonia, per trascinare tutti nel suo vortice di morte e distruzione.
Una guerra immediata, nel 1938, forse avrebbe potuto avere esiti differenti (a sfavore di Hitler), ma nessuno fu tanto lungimirante da comprendere ciò. Ma, purtroppo, con i "se" e con i "ma" non si può riscrivere la storia.
Il romanzo di Harris, in questo grandioso scenario storico perfettamente documentato, racconta l’estremo tentativo da parte di una frangia di dissidenti tedeschi di aprire gli occhi alla diplomazia della Gran Bretagna e della Francia, ma senza alcun esito, purtroppo.
In questo romanzo di Harris ciò che affascina maggiormente è la ricostruzione storica più che l’intrigo.
Sono davvero contento di averlo letto.
La morale della Storia, considerando gli eventi di lungo termine dopo la Conferenza di Monaco, è che non c’è nessuna trattativa possibile con i dittatori e che qualsiasi speranza di una pace duratura con loro è pura illusione.

Scrive Robert Harris, andando alle radici più antiche della scrittura di quest'opera: 
Questo romanzo è la naturale conclusione del forte interesse che da oltre trent’anni nutro per il trattato di Monaco e vorrei ringraziare Denyd Blakeway, il produttore con cui nel 1988 ho realizzato per la BBC il documentario televisivo “God Bless You, Mr Chamberlain”, per celebrare il cinquantesimo anniversario della conferenza. Da allora condividiamo una specie di ossessione per l’argomento” (ib., p. 295)

 

(Risvolto di copertina) Settembre 1938. Hitler vuole la guerra. Chamberlain vuole a tutti i costi preservare la pace. Alla conferenza di Monaco si gioca il tutto per tutto. E il mondo sta con il fiato sospeso.
Settembre 1938. Hugh Legat è uno degli astri nascenti del Servizio diplomatico britannico e lavora al numero 10 di Downing Street come segretario particolare del primo ministro, Neville Chamberlain. L'aristocratico Paul von Hartmann fa parte dello staff del ministero degli Esteri tedesco ed è in segreto un membro della cospirazione anti-Hitler. I due uomini, che si erano conosciuti e frequentati a Oxford, non si sono più visti né sentiti per sei anni, fino al giorno in cui le loro strade si incrociano nuovamente in circostanze drammatiche in occasione della Conferenza di Monaco, un momento cruciale che definirà il futuro dell'Europa. Entrambi si ritroveranno di fronte a un grave dilemma: quando sei messo alle strette e il rischio è troppo alto, chi decidi di tradire? I tuoi amici, la tua famiglia, il tuo paese o la tua coscienza? Nella tradizione di Fatherland, che ha reso famoso Robert Harris in tutto il mondo, Monaco è un romanzo di spionaggio basato sui fatti reali che hanno cambiato il corso della storia, che parla di tradimento, coscienza e lealtà ed è ricco di dettagli e figure chiave dell'epoca – Hitler, Chamberlain, Mussolini, Daladier –, raccontati in maniera vivida e cinematografica.
L’autore. Robert Harris, nato nel 2958 a Nottingham, laureato alla Cambridge University, è stato giornalista alla BBC, e uno dei più noti commentatori dell'"Observer" e del "Sunday Times". È diventato famoso in tutto il mondo nel 1992 con Fatherland, il cui successo lo ha inserito a pieno titolo nel ristretto gruppo di autori che hanno ridefinito e ampliato i confini del thriller. Successo confermato da Enigma (1996), Archangel (1998), Pompei (2003), Imperium (2006), Il ghostwriter (2007), da cui è stato tratto un film diretto da Roman Polanski, Conspirata (2010), L'indice della paura (2011), L'ufficiale e la spia (2014), Conclave (2016), Monaco (2018), Il sonno del mattino (2019). Prima di dedicarsi interamente alla narrativa ha scritto numerosi saggi, fra cui una celebre inchiesta sui falsi diari del Führer, I diari di Hitler (2002). Tutte le sue opere sono edite in Italia da Mondadori.

 

L'autore. Robert Harris, nato nel 1957, a Nottingham, laureato alla Cambridge University, è stato giornalista alla BBC, e uno dei più noti commentatori dell'"Observer" e del "Sunday Times". È diventato famoso in tutto il mondo nel 1992 con Fatherland, il cui successo lo ha inserito a pieno titolo nel ristretto gruppo di autori che hanno ridefinito e ampliato i confini del thriller. Successo confermato da Enigma (1996), Archangel (1998), Pompei (2003), Imperium (2006), Il ghostwriter (2007), da cui è stato tratto un film diretto da Roman Polanski, Conspirata (2010), L'indice della paura (2011), L'ufficiale e la spia (2014), Conclave (2016), Monaco (2018), Il sonno del mattino (2019). Prima di dedicarsi interamente alla narrativa ha scritto numerosi saggi, fra cui una celebre inchiesta sui falsi diari del Führer, I diari di Hitler (2002). Tutte le sue opere sono edite in Italia da Mondadori.

Buona parte della narrazione di Robert Harris si svolge all’interno del Fuhrerbau di Monaco di Baviera tuttora esistente ed oggi sede di una facoltà universitaria.  L'edificio del Führerbau (it. "Palazzo del Führer") è stato costruito tra il 1933 e il 1937 dall'architetto Paul Ludwig Troost in Königsplatz a Monaco di Baviera nel quartiere di Maxvorstadt. I progetti iniziali per la costruzione sono del 1931. Fu completato tre anni dopo la morte di Troost da Gall Leonhard.  https://it.m.wikipedia.org/wiki/Führerbau

Buona parte della narrazione di Robert Harris si svolge all’interno del Fuhrerbau di Monaco di Baviera tuttora esistente ed oggi sede di una facoltà universitaria. L'edificio del Führerbau (it. "Palazzo del Führer") è stato costruito tra il 1933 e il 1937 dall'architetto Paul Ludwig Troost in Königsplatz a Monaco di Baviera nel quartiere di Maxvorstadt. I progetti iniziali per la costruzione sono del 1931. Fu completato tre anni dopo la morte di Troost da Gall Leonhard. https://it.m.wikipedia.org/wiki/Führerbau

La conferenza e il patto di Monaco

Il patto di Monaco del 1938

75 anni fa Francia e Regno Unito si accordarono con Hitler per la spartizione della Cecoslovacchia, diventando il simbolo di come non si deve trattare con i dittatori

Nella notte tra il 28 e il 29 settembre 1938 a Monaco i capi di stato e di governo di Francia, Regno Unito, Italia e Germania firmarono un documento con cui veniva permesso alla Germania di annettersi gran parte della Cecoslovacchia. Gli accordi furono salutati come un grande successo della diplomazia sulla forza e della pace sulla guerra.
I leader inglesi e francesi che vi avevano preso parte al loro ritorno in patria furono accolti da festeggiamenti. In realtà gli accordi di Monaco non servirono a fermare la guerra, ma la rimandarono soltanto di un anno. Gli accordi furono l’ultimo tentativo di fermare Hitler con la diplomazia e sono diventati il simbolo dell’arrendevolezza delle democrazie di fronte all’arroganza dei tiranni.

 

La strada verso Monaco. La conferenza di Monaco fu una riunione organizzata in tutta fretta nel disperato tentativo di fermare una guerra che, apparentemente, nessuno voleva. Da mesi la Germania nazista aveva innescato quella che divenne nota come la “crisi dei Sudeti”, cioè la minoranza di lingua tedesca che all’epoca abitava la Cecoslovacchia.
In una serie di discorsi durante tutta l’estate del 1938, Hitler aveva raccontato e ingigantito le sofferenze e le angherie a cui erano sottoposti i sudeti dal governo cecoslovacco. Contemporaneamente, tra i sudeti veniva formato un partito nazista e si organizzavano squadracce e bande armate con cui preparare un’insurrezione. Al culmine della crisi, il 24 settembre, Hitler presentò al governo Cecoslovacco un ultimatum che conteneva una serie di durissime condizioni: se non fossero state soddisfatte entro il 28 settembre, Hitler avrebbe invaso il paese.
Era il metodo che Hitler aveva già utilizzato con l’annessione dell’Austria e che avrebbe tentato di utilizzare di nuovo l’anno successivo con la Polonia. In teoria la Cecoslovacchia era protetta da trattati di alleanza con Francia e Regno Unito, ma entrambi i paesi fecero sapere ai cecoslovacchi di non essere pronti per la guerra e che difficilmente avrebbero potuto impegnare militarmente la Germania, almeno nel breve periodo.
Ugualmente, quando l’ultimatum di Hitler divenne pubblico, i governi di Francia e Regno Unito vennero presi dal panico. Gli ambasciatori cecoslovacchi fecero sapere che il loro paese avrebbe combattuto e questo rischiava di far sprofondare l’Europa in una nuova guerra mondiale. Il primo ministro inglese, il conservatore Neville Chamberlain, era particolarmente preoccupato.

 

Chamberlain a Monaco nel 1938

Chamberlain, l’uomo con l’ombrello. Difficilmente il Regno Unito avrebbe potuto sottrarsi alla dichiarazione di guerra alla Germania, visti i trattati che la legavano alla Cecoslovacchia. La guerra però era estremamente impopolare tra la popolazione e tra i membri di tutti i partiti. La situazione era particolarmente complessa da gestire per Chamberlain, il primo ministro inglese su cui in seguito vennero fatte molte ironie.
Uno dei nomignoli con cui Chamberlain era noto già all’epoca era “l’uomo con l’ombrello”. In un’epoca in cui dittatori come Franco, Mussolini, Hitler e Stalin si presentavano in pubblico vestiti da militari e con pose aggressive, Chamberlain sembrava l’incarnazione delle virtù pacifiche e borghesi. Si vestiva in genere in maniera molto formale e un po’ antiquata e spesso si presentava in pubblico proprio con un ombrello (che è tuttora considerato in certi casi un oggetto molto borghese e un po’ effeminato).
Sin dall’inizio del suo mandato, nel 1937, Chamberlain aveva cercato di inserire la Germania in un sistema di relazioni diplomatiche stabili in Europa, cercando di contenere, e probabilmente sottovalutando, l’aggressività del regime nazista. Con il tempo aveva conquistato l’immagine di politico difensore della pace, il che gli aveva procurato consensi non solo nel Regno Unito, ma in quasi tutta Europa.
Quando venne a sapere dell’ultimatum tedesco, Chamberlain si rivolse all’unica persona che credeva avrebbe potuto persuadere Hitler: Benito Mussolini. Alle 10 di mattina del 28 ottobre, quattro ore prima che scadesse l’ultimatum, Chamberlain, tramite l’ambasciatore a Roma, contattò il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano che a sua volta informò il Duce. Il governo inglese chiedeva la mediazione del governo italiano per persuadere la Germania a concedere altre 24 ore di tempo alla Cecoslovacchia e ad organizzare una conferenza per evitare la guerra.

 

La stretta di mano tra Chamberlain e Hitler che sancisce l'accordo di Monaco

Come si svolse la conferenza di Monaco. Mussolini, lo sappiamo dai diari di Ciano e da quelli di altri suoi collaboratori, fu molto felice di acconsentire alla richiesta inglese, soprattutto perché dava a lui e all’Italia il ruolo di importanti mediatori in faccende europee di primo piano. Mussolini si mise in comunicazione con Hitler e in poche ore riuscì ad ottenere un rinvio di 24 ore dell’ultimatum e a organizzare una conferenza a Monaco di Baviera.
La notizia arrivò a Londra mentre Chamberlain stava tenendo un discorso al parlamento. Quando disse che Hitler aveva accettato la conferenza, la sua voce venne sommersa dalle grida di gioia e dagli applausi dei parlamentari di entrambi gli schieramenti. La mattina dopo Chamberlain partì in aereo da Londra e arrivò a Monaco insieme al primo ministro francese Édouard Daladier e a Benito Mussolini.
Gli incontri cominciarono subito e alle discussioni non partecipò alcuna delegazione cecoslovacca, anche se alcuni membri del governo erano presenti in città. Fu una condizione imposta da Hitler a cui né Chamberlain né Daladier si opposero. Le discussioni andarono avanti tutto il giorno sulla base del cosiddetto “piano italiano”, che in realtà era stato preparato dal ministero degli esteri tedesco.
In sostanza l’unica cosa ad essere discussa fu quanta parte della Cecoslovacchia avrebbe dovuto essere annessa alla Germania nazista. A ora di cena, mentre i delegati italiani e tedeschi partecipavano a una festa voluta da Hitler, Chamberlain e Daladier incontrarono i cecoslovacchi e gli chiesero di accettare l’accordo o sarebbero stati lasciati soli ad opporsi alla Germania.
All’una e trenta di notte del 30 settembre l’accordo di Monaco venne firmato dalle quattro grandi potenze. La Germania otteneva quasi tutti i territori che aveva chiesto, una striscia lungo il confine occidentale del paese. Altri pezzi di Cecoslovacchia sarebbero stati annessi dalla Polonia e dall’Ungheria. Una commissione internazionale si sarebbe occupata di determinare altre eventuali questioni territoriali.

 

Chamberlain al suo ritorno con la promessa di una pace duratura tra Regno Unito e Germania: "Andate e fate sonni tranquilli!"

Dopo Monaco.  Gli accordi di Monaco vennero considerati come l’ultima concessione ad Hitler, quella che avrebbe finalmente fatto cessare le tensioni e le minacce di guerra che oramai da qualche anno attraversavano l’Europa. Ritornati in patria tutti i negoziatori vennero accolti con grandi festeggiamenti per essere riusciti a scongiurare la guerra. Mussolini fu celebrato dalla propaganda di regime non solo per avere mantenuto la pace, ma per aver riportato l’italia in un ruolo di primo piano accanto alle grandi potenze europee.
Il primo ministro francese, Daladier, aveva un quadro più chiaro della situazione e, come scrisse nelle sue memorie, sentiva di aver ceduto troppo all’arroganza di Hitler. Con sua grande sorpresa, anche lui venne accolto con numerosi festeggiamenti al suo ritorno a Parigi.
Ma quello che venne considerato il vero trionfatore degli accordi di Monaco fu Chamberlain. Al suo ritorno nel Regno Unito venne accolto come un eroe per essere riuscito ad evitare la guerra. Appena sceso dall’aereo che lo aveva riportato indietro da Monaco, Chamberlain tenne un breve discorso che all’epoca divenne rapidamente molto famoso.
Miei cari amici, questa è la seconda volta che siamo tornati dalla Germania a Downing Street con una pace onorevole. Io credo che sia una pace per la nostra epoca. Vi ringraziamo dal profondo dei nostri cuori. Ora io vi raccomando di andare a casa e dormire sonni tranquilli nei vostri letti.

Ironicamente, quasi esattamente un anno dopo, il primo settembre del 1939, l’Europa e il Regno Unito sarebbero entrati nel più sanguinoso conflitto della loro storia.

Scrive Robert Harris:  “Questo romanzo è la naturale conclusione del forte interesse che da oltre trent’anni nutro per il trattato di Monaco e vorrei ringraziare Denyd Blakeway, il produttore con cui nel 1988 ho realizzato per la BBC il documentario televisivo “God Bless You, Mr Chamberlain”, per celebrare il cinquantesimo anniversario della conferenza. Da allora condividiamo una specie di ossessione per l’argomento” (ib., p. 295)

Monaco. In un romanzo di Robert Harris, il racconto della Conferenza e del Patto di Monaco: mai trattare con i dittatori!
Monaco. In un romanzo di Robert Harris, il racconto della Conferenza e del Patto di Monaco: mai trattare con i dittatori!
Monaco. In un romanzo di Robert Harris, il racconto della Conferenza e del Patto di Monaco: mai trattare con i dittatori!
Monaco. In un romanzo di Robert Harris, il racconto della Conferenza e del Patto di Monaco: mai trattare con i dittatori!
Monaco. In un romanzo di Robert Harris, il racconto della Conferenza e del Patto di Monaco: mai trattare con i dittatori!
Monaco. In un romanzo di Robert Harris, il racconto della Conferenza e del Patto di Monaco: mai trattare con i dittatori!
Monaco. In un romanzo di Robert Harris, il racconto della Conferenza e del Patto di Monaco: mai trattare con i dittatori!
Monaco. In un romanzo di Robert Harris, il racconto della Conferenza e del Patto di Monaco: mai trattare con i dittatori!
Monaco. In un romanzo di Robert Harris, il racconto della Conferenza e del Patto di Monaco: mai trattare con i dittatori!
Monaco. In un romanzo di Robert Harris, il racconto della Conferenza e del Patto di Monaco: mai trattare con i dittatori!
Condividi post
Repost0
15 marzo 2023 3 15 /03 /marzo /2023 09:38
Simon Raven, Il Morso sul collo, Gargoyle

Ho letto con grande piace Il morso sul collo (titolo originale: Doctors Wear Scarlet, nella traduzione di P. De Crescenzo), scritto dal quasi misconosciuto per il pubblico italiano Simon Raven e pubblicato meritoriamente da Gargoyle Editore (nella collana Nuovi incubi), nel 2009, dopo molti decenni dalla sua uscita in lingua originale.
Il titolo italiano di questo interessante romanzo lo colloca esplicitamente nel solco vampirologico, mentre quello in lingua originale rimanda ad altro che, facendo da sfondo all’intera vicenda, la contestualizza e la trasforma in una grande allegoria sulle storture del mondo accademico britannico, ed anche in generale.
Fa da cornice il Lancaster, struttura universitaria di antiche tradizioni, a Cambridge che, pur finzionale, rimanda molto credibilmente, alle prestigiose istituzioni storiche esistenti.
L'ambientazione è collocata negli anni Cinquanta. Il protagonista è lo studioso Richard Fountain che si trova a Creta per compiere delle ricerche archeologiche. Poichè da alcuni mesi non ha più dato notizia di sè, un manipolo di amici, nonché colleghi, parte a sua volta per la Grecia per riportarlo a casa, anche perché un ispettore di Scotland Yard, John Tyrrell vuole mettersi sulle sue tracce sulla base di segnalazioni ricevute dai colleghi della polizia greca per eventi "disdicevoli" in cui sarebbe stato implicato.
La missione avrà esito positivo, pur con molti spostamenti alla ricerca di esili tracce che Fountain ha lasciato dietro di sè, prima ad Atene, poi nella piccola isola di Hydra e infine nella parte più selvaggia di Creta: Fountain convalescente, come da una grave malattia, verrà riportato a casa, turbato e apparentemente immemore di alcune cupe circostanze che lo hanno visto coinvolto, tra cui anche la morte della donna che lí aveva amato in una relazione strana e morbosa, Criseide.
Insomma, non voglio anticipare altri dettagli per non fare da spoiler per chi volesse intraprendere la lettura di questo insolito - e prezioso - romanzo.
C’è di mezzo una storia vampirica? 
Sì, indubbiamente, anche se i suoi consueti e iconici elementi (pur presenti) sono stemperati in una cornice più vasta.
Siamo di fronte ad un caso - si potrebbe dire - di vampirismo “intellettuale” e spirituale che diventa perfetta metafora di ciò che accade nel mondo accademico da cui Richard Fountain proviene.
Questo romanzo è una vera chicca per gli amanti di tutte le possibili ramificazioni e divagazioni della letteratura vampirologica.

L'opera è preceduta da un'approfondita ed articolata introduzione dal titolo: "Simon Raven: sull'umanità fragile, ipocrita, speranzosa", scritta da Stefano Martello, il quale conclude:



Attuando un processo di esclusione, possiamo affermare che il testo non sia un noir (non ne ricorrono le atmosfere e le situazioni), né un romanzo horror (per gli stessi motivi).
Forse un thriller? Parzialmente nelle pagine conclusive, non tanto, però, da includerlo, nella letteratura di genere. Forse un romanzo storico? No, se non per qualche rimando.
E allora? (...) ho parlato di un trattato romanzato sulla Libertà, ma non credo che questo basti ad includere il testo nel genere saggistico.
Un libro sui vampiri, dunque?
Qualche traccia, qualche pretesto, ma niente di definitivo.
Forse Raven voleva solo scrivere un libro sull'Umanità.
(...) 

(ib., pp. 15-16)

Concordo pienamente sul fatto che questo romanzo va indubbiamente collocato al di fuori di qualsiasi genere, benchè di essi compaiano tracce e stilemi che un lettore accorto potrà rintracciare ed evidenziare. Ma il romanzo, in verità, è qualcosa di più, anzi molto di più, ed è apprezzabile proprio per questa capacità di andare oltre.

Simon Raven, nato nel 1927 e morto nel 2001, è stato un prolifico scrittore di romanzi di successo, ma anche di sceneggiature.
Il morso sul collo è uno dei pochissimi tradotti in Italiano ed é stato uno dei primi romanzi pubblicati nella sua lunga carriera ed espressione precoce del suo interesse per il sovrannaturale.

 

Il Morso sul collo - edizione inglese

(Risguardo di copertina) Che fine ha fatto Richard Fountain, archeologo di successo, ex-militare e accademico votato a una brillante carriera? Dalle claustrofobiche atmosfere di un college d'Oltremanica alle colline assolate e sperdute della Grecia, infestate da un'inquietante presenza, fino al ritorno in Inghilterra, desiderato e temuto a un tempo, l'indagine e il ritrovamento del protagonista da parte di un manipolo di colleghi e amici si rivelerà non privo di colpi di scena mozzafiato. Dalla ricostruzione del passato - che muove dall'indagine e dagli incalzanti interrogativi ispettore Tyrrel - Anthony Seymour, voce narrante della vicenda e primo fra gli amici di Richard, sarà costretto a una corsa contro il tempo, finendo per il confrontarsi con un mito tenebroso, quello del vampirismo, che sembra un'invenzione di letteratura e cinema e intreccia invece le proprie radici con gli arcani riti di una civiltà che è abituata da secoli a nascondere i propri segreti. Tutto sembra risolversi al meglio, ma Anthony e gli altri non conoscono il destino che li attende: solo durante la cerimonia inaugurale dell'anno accademico presso il Lancaster College di Cambridge troveranno le risposte definitive.

https://thecharterhouse.org/.../life-simon-raven.../

Simon Raven

Simon Arthur Noël Raven (28 December 1927 – 12 May 2001) was an English author, playwright, essayist, television writer, and screenwriter. He is known for his louche lifestyle as much as for his literary output.

Expelled from Charterhouse School, he was commissioned in the infantry in National service, before studying at King's College, Cambridge. Unable to earn a living as a writer, he rejoined the Army, but soon resigned, rather than be court-martialled for 'conduct unbecoming' on account of his gambling debts.

Declaring that he wrote only for people who shared his own standards, he never attracted the mass market, and had to be rescued by publisher Anthony Blond, who paid him a regular wage on condition that he stayed out of London and concentrated on his writings, many of which Blond published. The arrangement lasted for over 30 years.

Raven is remembered for his ten-novel sequence Alms for Oblivion and its baroque, supernatural sequels The Roses of Picardie and September Castle; as well as The Feathers of Death, an exploratory early army novel dealing with homosexuality between officers and "other ranks". He also wrote scripts for the television drama series The Pallisers (1974) and Edward & Mrs. Simpson (1978)).

 


 

Condividi post
Repost0
14 marzo 2023 2 14 /03 /marzo /2023 10:21
Roberto Alajmo, Notizia dal disastro, Sellerio

Notizia del disastro (Sellerio Editore) è un racconto-inchiesta di Roberto Alajmo sul “dimenticato” disastro aereo nel mare antistante l’aeroporto di Punta Raisi - quello del volo di linea Alitalia 4128 - nel dicembre del 1978, ed era già stato pubblicato da Garzanti nel 2001 ma di recente - nel 2022 - è stato riproposto da Sellerio.
Come spiega lo stesso Alajmo, in una sua breve prefazione era importante scrivere di questo evento per diverse ragioni.
Innanzitutto perché questo disastro aereo giunto a sei anni di distanza dal precedente evento, quello di Montagna Longa, era stato oscurato da quello di poco successivo, cioè dell’aereo di linea scomparso nei cieli sopra Ustica. Alajmo fa notare che l’attenzione si fosse polarizzata su quelli piuttosto che sul volo caduto nel mare antistante l’aeroporto, l'uno rimasto avvolto in aura di mistero e di indeterminazione, l'altro studiato e sviscerato in tutti i possibili modi sino a giungere ad una conclusione veridica sulle cause del disastro, anche se "senza colpevoli".
E ciò malgrado che nella tragedia di Punta Raisi, a differenza di quella che l'aveva preceduta e di quella che l'aveva seguita, si fossero avuti dei superstiti (21 su di un totale di 129 tra passeggeri ed equipaggio), quasi dei miracolati, che forse avrebbero potuto essere ben di più se i soccorsi in mare fossero stati più organizzati e solleciti. 
I superstiti di questo volo hanno costituito una preziosa fonte di informazioni e testimonianze anche relativamente agli ultimi istanti delle vittime, di alcune delle quali il corpo non venne mai recuperato.
Quindi Roberto Alajmo ha voluto intraprendere questo faticoso e doloroso (per i sopravvissuti) lavoro di raccolta delle testimonianze per dare vita e spessore anche a tutti coloro che morirono.
I sopravvissuti che furono costretti a convivere con i propri sensi di colpa e con la sindrome del “miracolato”., con reazioni variegate: dall’esaltazione ipomaniacale alla decisa rimozione sino ad un forzato e ostinato oblio che ha suggellato loro le labbra, con reazioni in fondo analoghe a quelle descritte da Primo Levi nel suo saggio-testimonianza “I sommersi e i salvati”. Reazioni le più disparate che hanno anche a che vedere, indubbiamente, con la Sindrome Post-Traumatica da Stress.
Capitolo dopo capitolo impariamo a conoscere le storie individuali di coloro che si salvarono - e, per riflesso, anche di coloro che perirono - sia prima del volo (quello fu un giorno di terribili ritardi, di volo saltati e di liste d’attesa interminabili) sia durante. E ovviamente, come nel famoso film di Kurosawa le storie e le testimonianze divergono perché i diversi personaggi vengono viste da diverse angolazioni.
Il ruolo di Alajmo, narratore di tali eventi e di questi destini intrecciati, è analogo a quello di Fra Ginepro, il frate che venne incaricato di studiare le storie dcinque viandanti che perirono a causa del crollo inatteso ed improvviso di un ponte di tavole e corde in Perù aulla strada tra Lima e Cuzco.
Quali eventi li avevano portato ad essere assieme in quella fatidica giornata? Si era trattato di una semplice coincidenza, oppure era stata la volontà di Dio, il destino o il Fato, a decidere che quelle cinque vite dovessero essere recise proprio in quel momento? E quanto poi, a distanza di secoli da quell'evento, racconta Thornton Wilder, nel suo "Il ponte di San Luis Rey", con il suo personaggio Fra Ginepro che cerca di investigare e capire cosa avesse messo assieme quei cinque viandanti, se il Caso o la Necessità o il Destino.

 

Thornton Wilder, Il Ponte di San Luis Rey, Mondadori Oscar

Nel 1714 il ponte di San Luis Rey, che per oltre un secolo è stato la più importante via di collegamento per gli abitanti di Lima e Cuzco, in Perù, crolla improvvisamente, causando la morte di cinque persone. Fra Ginepro, un frate che si accingeva ad attraversarlo, assiste all'accaduto e sconvolto dalla tragedia inizia a porsi delle domande di carattere religioso e morale: chi erano quei cinque e perché si trovarono proprio lì? Cercando di risalire alle cause del crollo del ponte, la curiosità lo porta a ricostruire le vite dei cinque deceduti nel tragico evento: avevano qualcosa in comune? Nasce un problema morale su cui si pronuncia anche la Chiesa e che chiama in causa la Provvidenza: si è trattato di una tragedia o di una punizione divina, che ha fatto incrociare i destini dei cinque nel medesimo luogo alla medesima ora? Il Signore punisce così i malvagi oppure in tal modo chiama a sé gli innocenti? I quesiti, posti sull'eterna condizione umana e sulla morte, sulla misteriosa complicità di caso e destino, rimarranno inevasi.
 

È questo il compito che si è voluto assegnare Alajmo: e devo dire che ci è riuscito egregiamente, fornendomi spunti di riflessione e facendo scaturire dentro di me intense emozioni, ma anche consentendomi potenti visualizzazioni di quali eventi possano essersi verificati quando l’aereo  del volo Alitalia 112 che trasportava mio padre e altri 115 (inclusi i componenti dell'equipaggio) si schiantò su Montagna Longa il 5 maggio del 1972: la non ci furono sopravvissuti che potessero farsi carico del doloroso compito del ricordo e del racconto.

 

Roberto Alajmo, Notizia dal disastro, Garzanti Editore

(Risguardo di copertina) «Il disastro di Punta Raisi del dicembre del 1978, contrariamente agli altri che in varia misura hanno coinvolto l'aeroporto di Palermo, non ha come scenario un attentato o un complotto. Ha come scenario il destino. Semplicemente il destino. Paradossalmente è stato proprio questo che mi ha spinto a scrivere "Notizia del disastro". Il fatto che dietro ci sia solo il destino. Collettivo e grandioso: ma solo destino. Crudelissimo e ingiusto: ma solo destino».
«Avevo cominciato a raccogliere documentazioni e testimonianze, ma qua-si subito ho dovuto fare i conti con le discrepanze che diverse fonti mi prospettavano. Ne è venuto fuori una specie di Rashomon. Come nel film di Kurosawa, ogni testimone racconta la stessa vicenda da diverse angolazioni, finendo per riferirla in maniera discorde e contraddittoria. Da qui la dicitura Romanzo che si trova sul frontespizio di questo libro. A romanzare questa vicenda non sono stato io. Sono stati i suoi stessi personaggi».
Il disastro aereo avvenuto il 23 dicembre 1978 - un DC9 proveniente da Roma con 129 passeggeri, schiantatosi in mare per una serie di infauste concomitanze - ebbe solo 21 superstiti, anche se a uscire vivi dall'aereo furono una sessantina. Il resto annegò in attesa dei soccorsi, a poca distanza dalla costa. Di quei passeggeri Alajmo racconta cosa successe subito prima e, per chi visse, subito dopo l'incidente: biografie, coincidenze, eccentricità, illuminazioni, ironie della vita, slanci di generosità e chiusure di egoismo: una trama sorprendente che ha come protagonista il Fato.

 

Hanno detto
«Il racconto di Roberto Alajmo parla di tutte le persone coinvolte, sia sopravvissuti sia quelli che non ce l'hanno fatta. Dietro una scrittura cronachistica lui ci mette un cuore, un po' nascosto, un po' distaccato, un cuore che dà delle botte fortissime di emozione e ti lascia di stucco.» - Antonio Manzini per Maremosso

 

Roberto Alajmo

L’autore. Roberto Alajmo è nato a Palermo e qui continua a vivere. Collabora stabilmente con “l’Unità” e diverse altre testate nazionali.
Fra i suoi libri: "Almanacco siciliano delle morti presunte" (edizioni della Battaglia, 1996); "Le scarpe di Polifemo" (Feltrinelli, 1998); "Notizia del disastro" (Garzanti, 2001), col quale ha vinto il premio Mondello, "Carne mia" (Sellerio Editore Palermo, 2016) e "Io non ci volevo venire" (Sellerio Editore Palermo, 2021).
Con Mondadori nel 2003 ha pubblicato il romanzo "Cuore di Madre", finalista ai premi Strega e Campiello.
Nel 2004 è uscito "Nuovo repertorio dei pazzi della città di Palermo" e nel 2005 il romanzo "È stato il figlio", finalista al premio Viareggio e vincitore del SuperVittorini e SuperComisso.
Sempre per Mondadori nel 2008 è uscito "La mossa del matto affogato", seguito da "Il primo amore non si scorda mai" (2013).
Con Laterza ha pubblicato i saggi: "Palermo è una cipolla" (2005); "1982 - Memorie di un giovane vecchio" (2007); "L'arte di Annacarsi - Un viaggio in Sicilia" (2010); "Tempo Niente. La breve vita felice di Luca Crescente" (2011).
Per il teatro: "Repertorio dei pazzi della città di Palermo", "Centro divagazioni notturne" e il libretto dell'opera "Ellis Island", per le musiche di Giovanni Sollima.
I suoi libri sono tradotti in inglese, francese, tedesco, spagnolo, svedese e olandese.
(Fonti di questa nota bio-bibliografica: sito ufficiale dell'autore e archivio Laterza)

Condividi post
Repost0
3 marzo 2023 5 03 /03 /marzo /2023 16:27
J.-F. Grangé, Altare della paura, Garzanti

Da quando vidi il film "I fiumi di porpora" e lessi il libro che lo aveva ispirato. leggo sempre i romanzi di Jean-Christhof Grangé. Si potrebbe dire che li attendo al varco e non ne perdo uno
Le trame dei suoi romanzi a volte sono intricate, a volte quasi baroccheggianti e si tratta il più delle volte di thriller che tendono al noir con i personaggi principali che sembrano muoversi ai limiti del delirio e dell'allucinazione.
Ma ciò nondimeno mi tengono avvinto.
Grangé non mai ceduto alla tentazione di creare delle serie, in cui i singoli romanzi sono dei tasselli in una storia di ampio respiro che coinvolge sempre gli stessi personaggi principali.
Ogni romanzo si presenta come un novum (salvo alcuni che si presentano in qualche legati a coppie con il ricorrere degli stessi personaggi).
"Altare della paura" (Le jour des cendres, nella traduzione di Doriana Comerlati), pubblicato da Garzanti (Collana Narratori Moderni), nel 2021fa parte di questa tipologia di eccezioni, in quanto rappresenta la seconda indagine di una male assortita - eppure efficace - coppia di poliziotti, rispettivamente il commissario Paul Niémans e la sua aiutante sul campo Ivana Bogdanović.  Quest'ultima - sottoposta di Niémans - ha un passato difficile e doloroso dal quale si è riscattata con l'aiuto decisivo del commissario che le ha fatto da tutor salvifico, a tutti gli effetti.
I due vengono inviati dall'Ufficio centrale di Parigi per indagare su delitti di sangue gravi che si siano verificati nelle province più lontane della Francia e che richiedono una particolare delicatezza nelle procedure o che si presentano con una loro particolare complessità.
La loro precedente indagine (che ha rappresentato per noi lettori l'esordio della coppia di investigatori) si è svolta nell'Alsazia (si veda "L'ultima caccia", 2022).
Qui, invece, i due devono indagare su un presunto caso di omicidio avvenuto nel territorio dove vive da secoli una setta di anabattisti che hanno proprie usanze e riti (a somiglianza degli Amish in Pennsylvania) e che ammettono poche intrusioni nelle aree dove vivono grazie anche ad accordi impliciti con le amministrazioni locali confinanti.
Il presunto omicidio è avvenuto al tempo della vendemmia che per i "vendemmiatori di Dio" è fondamentale e rappresenta la principale risorsa economica.
Niémans indagherà dall'esterno, mentre Ivana si infiltrerà sotto copertura come lavorante stagionale.
L'indagine procede a ritmo incalzante e con numerosi colpi di scena, sino a quando i due - mettendo assieme le evidenze e i diversi bandoli - non giungono ad una risoluzione.
Una storia ben costruita che non mi ha deluso (15 luglio 2022)


(Copertina) In una comunità senza peccato, c'è un solo colpevole. E potrebbe essere l'unica anima innocente.
(Risguardo di copertina) Nella cappella alsaziana di Saint-Ambroise si riesce ancora a udire il fragore che ha accompagnato il crollo improvviso della cupola e la morte del vescovo Samuel, il cui corpo giace ormai senza vita sotto le macerie. A un primo sguardo, parrebbe trattarsi di un semplice incidente. Ma da alcuni dettagli non è possibile escludere l'ipotesi di un omicidio. È questo che pensano il detective Pierre Niémans e il suo braccio destro, Ivana Bogdanović, non appena visitano la scena del disastro. E scoprono che il luogo appartiene a una piccola comunità anabattista chiusa al resto del mondo. I suoi membri si fanno chiamare «vendemmiatori di Dio» perché vivono dei soli proventi di un vasto vigneto e si considerano gli unici emissari di un messaggio divino di purezza e integrità religiosa. Eppure, dietro una facciata di rettitudine e devozione, si cela una storia di rapporti coercitivi e malsani. Di promesse e giuramenti che non lasciano scampo. Di sacrifici che vanno oltre l'immaginabile e trovano la loro origine in un'interpretazione promiscua delle Scritture. Più Niémans e Bogdanović entrano in questa realtà fuori dal tempo, più si rendono conto di quanto sia difficile stabilire un confine tra bene e male, tra fede e fanatismo. Ma i due detective sono disposti a tutto pur di scoprire la verità. Anche a offrirsi come vittime sacrificali se serve a risparmiare vite innocenti ed evitare ulteriori spargimenti di sangue.
Torna il maestro del grande thriller con un nuovo episodio della serie che ha avuto inizio con il bestseller I fiumi di porpora, un successo internazionale senza precedenti, poi diventato un film con Jean Reno e Vincent Cassel. Nell'Altare della paura, Jean-Christophe Grangé accompagna i lettori nel cuore di una comunità apparentemente senza peccato, dove sembra impossibile individuare un movente o trovare un colpevole. Perché quest'ultimo potrebbe essere l'unica vera anima innocente.

 

Hanno detto
«Grangé non delude e si riconferma il re del grande thriller» – Le Figaro
«Un thriller straordinario, dal ritmo serrato, che ci ricorda come i sogni di purezza nascano spesso da cattive intenzioni» – Paris Match
«Grangé non ha pari, è capace di dipingere ritratti forti e incastonarli nel dramma della tragedia. L'altare della paura è un libro avvincente che si divora» – La Provence

Jean-Christophe Grangè

 

L'Autore. Jean-Christophe Grangé, nato a Parigi nel 1961, è autore di romanzi che hanno ampliato i confini del thriller tradizionale.
Dopo l'esordio negli anni Novanta, giunge alla notorietà grazie al film di Mathieu Kassovitz tratto da I fiumi di porpora (Garzanti 1999) interpretato da Jean Reno e Vincent Cassel, il primo di diversi adattamenti delle sue opere per il cinema e la televisione.
Per Garzanti ha pubblicato anche Il volo delle cicogne (2010), Il concilio di pietra (2001), Amnesia (2012), Il respiro della cenere (2013) e Il rituale del male (2016), primo volume della saga nera che trova la sua conclusione nell'Inganno delle tenebre (2017), La maledizione delle ombre (2019), L'ultima caccia (2020), sino  a L'altare della paura (2021).

Grangé, L'ultima caccia, Garzanti

Jean-Christophe Grangé, L'ultima caccia (nella traduzione di Doriana Comerlati),Garzanti (collana Narratori Moderni), 2020

Jean-Christophe Grangé ti aspetto sempre al varco! Da quando ti ho scoperto con "I fiumi di porpora" (a cui sono arrivato però tramite il film), non ho smesso di seguirti e di leggere le tue trame e i tuoi personaggi, a volte un po' contorti ed elaborati, ma sempre interessanti ed appassionanti, mai noiosi.
E ora attendo il prossimo… staremo a vedere (in genere Grangé ci regala un nuovo romanzo all'anno).
L'Ultima Caccia ci introduce alla conoscenza di un personaggio investigativo nuovo,  con il suo torbido e problematico passato, il commissario Niémans, e alla sua comprimaria, la giovane detective Ivana, anche lei forgiata da un passato complicato e doloroso. Niémans è stato prescelto per le sue particolari capacità intuitive e per la disinvolta rudezza con cui è capace di condurre le sue indagini, anche al prezzo - a volte - di infrangere delle regole e dei limiti.
I due vengono mandati ad indagare in uno scenario particolare, su di uno strano e truce caso di omicidio avvenuto nei boschi dell'Alsazia, riguardante il rampollo di un'illustre e potente famiglia tedesca (di alto lignaggio, peraltro).
Per questo motivo, il caso ha complicazioni internazionali e coinvolge in una inizialmente difficile collaborazione anche il corrispondente ufficio della polizia di oltreconfine.
Attraverso un percorso contorto e non semplice si arriverà all'individuazione di un colpevole, ma giustizia non sarà in fatta in senso pieno.
E tutti i personaggi, anche gli investigatori ritorneranno alla loro vita fiaccati e segnati, e con qualche insegnamento in più per quanto riguarda uno sguardo introspettivo su se stessi.

 


(dal risguardo di copertina) Nel cuore della Foresta nera, dove gli alberi fitti formano un dedalo inespugnabile, il buio non ha confini. È un buio che non lascia scampo e non perdona i passi falsi, come quelli commessi dal giovane Jürgen von Geyersberg, rampollo di una nobile e stimata dinastia. Quando il suo corpo viene rinvenuto con evidenti segni di mutilazione, è subito chiaro che si tratta di un efferato omicidio di cui può occuparsi una sola persona: il detective Pierre Niémans, l'uomo perfetto per risolvere casi spinosi che richiedono sangue freddo e riservatezza in ogni fase dell'indagine. Perché è importante che non trapeli alcun dettaglio e si impedisca alla stampa di ricamare sopra le vicende di una famiglia tanto rispettabile. Con l'aiuto dell'allieva Ivana Bogdanović e del comandante Kleinert, capo delle forze dell'ordine tedesche, Niémans si mette sulle tracce degli assassini, individuando, grazie al suo intuito infallibile, una valida pista da seguire: è quella della pirsch, un misterioso rituale venatorio che sembra risalire ai Cacciatori neri, un gruppo di criminali senza scrupoli assoldati da Himmler durante la seconda guerra mondiale per rintracciare ed eliminare gli ebrei. Ma più il tempo passa, più questa pista, all'inizio tanto promettente, si perde in sentieri secondari che sviano la polizia rischiando di far naufragare le indagini. Ma una nuova battuta di caccia sta per cominciare. Per arrivare alla verità, a Niémans e ai suoi non resta che stare al gioco e trasformarsi in predatori, prima che siano loro a diventare prede. Jean-Christophe Grangé si conferma uno degli autori di thriller più amati dai lettori. I suoi libri, tradotti in trenta lingue, occupano sempre i primi posti delle classifiche internazionali e il suo ultimo successo non fa eccezione. Con L'ultima caccia, Grangé torna alle atmosfere del romanzo che gli ha regalato la notorietà, I fiumi di porpora, e tesse una storia ricca di suspense e colpi di scena, dove gli orrori del passato sono la chiave per risolvere gli enigmi del presente.

 

Hanno detto:
«Una storia scritta a regola d'arte, un romanzo che vi terrà col fiato sospeso fino all'ultima pagina» – Le Figaro Magazine
«Un colpo da maestro, Jean-Christophe Grangé ritorna alle atmosfere dei "Fiumi di porpora" regalandoci un romanzo ipnotico sulle insidie nascoste nei legami di sangue» – l'Opinion
«"L'ultima caccia" ci conduce nella profonda oscurità dell'animo umano, rivelandone i lati più terribili. Un romanzo squisitamente inquietante e imperdibile» – Marie Claire France

Condividi post
Repost0
23 febbraio 2023 4 23 /02 /febbraio /2023 10:17
Joe e Kasey Lansdale, Non aprite quella morta, Einaudi

Il prolifico e versatile Joe Lansdale si è lanciato con Non aprite quella morta (titolo originale: Terror is Our Business. Dana Roberts Casebook of Horror, nella traduzione di Luca Briasco) - pubblicato da Einaudi (Super ET), nel 2022 - nella scrittura di racconti che si pongono nella migliore tradizione del sovrannaturale nel filone dei cosiddetti “investigatori dell’occulto”, riprendendone il frame e gli stilemi, come ad esempio il noto John Silence (creato da Algernon Blackwood), oppure Carnacki, cacciatore di fantasmi, creato da William Hope Hodgson, per non citare i meno noti racconti di Lord Dunsany.
In questi precedenti letterari il frame è quasi sempre quello di una narrazione (o testimonianza) che viene resa ad un ascoltatore o un’audience interessati o, in altri casi, da mettere in guardia (seguendo la tradizione affabulatoria del Gotico inaugurata da H. P. Lovecraft).
Il personaggio che Lansdale ci propone è assolutamente insolito nella nutrita galleria letteraria di investigatori dell'occulto, poiché Dana Roberts - in rottura con la tradizione maschilista di questo genere di personaggi - è una donna che si è specializzata nel risolvere dei “casi” misteriosi e spaventosi, con soluzioni definitive, ma - a volte - solo temporanee.
Dana, inoltre, crede nella forza della scienza e del razionalismo, sostenendo che tali casi siano provocati da forze solo apparentemente oscure che, un giorno, potranno essere spiegate. In questo senso, Dana rifiuta la definizione di "sovrannaturale" o di "occulto", ma tiene a precisare che i suoi casi sono semplicemente "sovranormali" e che un giorno, più o meno lontano, le forze in gioco potranno essere spiegate razionalmente e tenute a bada con i ritrovati scientifici.
Nella costruzione del volume è intervenuta la figlia Kasey Lansdale, molto conosciuta come musicista country (di cui si possono vedere i videoclip su YouTube e che si può ascoltare su Spotify). Per puro caso, al padre Joe venne chiesto di scrivere un racconto assieme alla figlia, da inserire in un'antologia, intitolata Dark Duets e curata da un Chris Golden. Ed ecco che è nato il racconto Amore cieco in cui fa la sua comparsa Jana  in un racconto gotico, seppur leggero ed ironico. Da questa prima comparsa di Jana, Kasey è stata incoraggiata dal padre a scrivere a quattro mani altri racconti in cui Dana Roberts e Jana potessero interagire, in modo tale  che all’investigatrice creata dal padre fosse affiancato un comprimario, pure donna, come in tutte le storie di investigazione che si rispettino (si veda il caso della celebre coppia Sherlock Holmes/Watson, ma si potrebbero citare molteplici altri esempi).
In questo modo si elimina la necessità dello stratagemma di una narrazione a posteriori, ma le vicende possono essere raccontate nel loro svolgersi, poiché il comprimario (aiutante o assistente che sia) fa da deuteragonista, testimone e narratore, in questo ruolo può introdurre anche un suo personale punto di vista.

La struttura di questa raccolta di casi è pertanto duplice: in una prima parte sono raccolti i casi di Dana Roberts da sola.
Segue poi il racconto Amore cieco, in cui fa la sua comparsa Jana, scritto a quattro mani da padre e figlia.
Quindi, nella seconda parte si succedono i racconti in cui Dana Roberts e Jana (nei panni di intraprendente apprendista) interagiscono.
Ciascuna delle due parti è preceduta da un'introduzione. La prima introduzione, con il titolo Dana Roberts, amici e parenti è scritta da Joe R. Lansdale, mentre l'introduzione alla seconda parte, con il titolo Jana e Dana, che spiega le modalità di nascita di Jana, è  di Kasey Lansdale.
Come spesso capita, il titolo sensazionalistico che in modo ironico fa il verso ad un noto film horror non fa affatto giustizia al sobrio titolo in lingua originale della raccolta di racconti.

Una bella lettura per serate invernali davanti al caminetto acceso, oppure al caldo sotto le coperte.

(Risguardo di copertina) Una raccolta di storie inedite popolate da personaggi memorabili che colloca Joe e Kasey Lansdale al fianco dei maestri indiscussi dei libri dell’orrore.
Dai jinn infuriati alle ombre malevole, dagli spettri di antichi viaggiatori fino ai mutaforma succhiatori di anime, Joe R. Lansdale e sua figlia Kasey dànno vita alle avventure di un duo di detective donne come non si era mai visto nella letteratura del sovrannaturale. Che si tratti di un faro maledetto, di una villa infestata in Italia, di un inquietante sfasciacarrozze in Texas o di un sinistro villaggio sotterraneo, Dana Roberts e la sua assistente Jana si ritrovano ogni volta a indagare su casi inspiegabili e parecchio pericolosi. Ad assisterle, oltre all'intuito infallibile e un ingegno analitico che tanto ricordano quello di Sherlock Holmes e John Watson, una serie di preziosissimi oggetti-amuleti: acqua santa, candele fatte di grasso umano, polveri benedette, terra di cimitero e vari strumenti di magia che acquistano potere grazie alla fede di chi li possiede. Qualsiasi cosa pur di impedire agli esseri provenienti da altre dimensioni di creare scompiglio nel nostro mondo. Una raccolta di storie inedite popolate da personaggi memorabili che colloca Joe e Kasey Lansdale al fianco dei maestri indiscussi dei libri dell'orrore.

 

Gli autori

Joe Lansdale

Joe R. Lansdale, scrittore statunitense versatile e prolifico, si è cimentato in avvincenti trame di genere (western, noir, thriller, fantascienza), rinnovandole con uno spiccato gusto pulp nella scelta di elementi grotteschi e di un linguaggio triviale e irriverente. La sua vena migliore si esprime nella capacità di penetrare l’atmosfera del profondo Sud, in violenti chiaroscuri che esaltano l’amicizia, l’amore, il sesso e denunciano le discriminazioni razziali, la malvagità e la stupidità. Atto d’amore (Act of Love, 1980), La notte del drive-in (The Drive-In, 1988, primo di una serie horror), Il mambo degli orsi (Two-Bear Mambo, 1994), In fondo alla palude (The Bottoms, 2000), La sottile linea scura (A Fine Dark Line, 2002), Tramonto e polvere (Sunset e Sawdust, 2004).
Nel 2008 sono stati pubblicati anche La morte ci sfida, Fuoco nella polvere, Il carro magico e Assassini nella giungla. Nel 2010 è uscito Devil Red (Fanucci). Nel 2012 Einaudi ha pubblicato Acqua buia, considerato il suo capolavoro e nel 2013 La foresta e Una coppia perfetta. I racconti di Hap e Leonard, tre racconti della serie dei due investigatori fuori dagli schemi. Del 2014 è Notizie dalle tenebre (Einaudi). Nel 2015 esce La foresta e Honky Tonk samurai (entrambi Einaudi); nello stesso anno vince il Raymond Chandler Award. Nel 2016 pubblica sempre con Einaudi Paradise Sky, cui seguono Io sono Dot e Bastardi in salsa rossa(2017), Il sorriso di Jackrabbit. Un'indagine di Hap & Leonard (2018) e Hap & Leonard Sangue e limonata (2019). Tra le altre pubblicazioni Caldo in inverno (Mondadori, 2020), Una Cadillac rosso fuoco (Einaudi, 2020) e Jane va a nord (Einaudi, 2020).


 

Kasey Lansdale

Kasey Lansdale, figlia di Joe R. Lansdale, oltre a essere una celebre cantautrice country è autrice di numerosi racconti e romanzi diventati anche sceneggiature e fumetti. Fa parte della Horror Writer's Association. Vive a Los Angeles, California. Nel 2022 Einaudi ha pubblicato in Italia Non aprite quella morta, scritto con il padre Joe.

Condividi post
Repost0
2 febbraio 2023 4 02 /02 /febbraio /2023 10:33
Josè Saramago, Cecità, Einaudi, Supercoralli, 1996

Cecità di José Saramago (Ensaio sobre a Cegueira, nella traduzione di Rita Desti), pubblicato per la prima volta nei Supercoralli Einaudi nel 1996, è un romanzo non-romanzo, forte ed intenso nei suoi contenuti e tematiche, forse addirittura sconvolgente o, si potrebbe dire anche prendendo a prestito un termine freudiano, perturbante. Apparentemente, lo è, un romanzo, per via del suo contenuto fiction, ma in realtà quella che Saramago mette in scena è una narrazione metafisica e forse anche filosofica.
D'altra parte, il titolo in lingua originale tradisce il progetto implicito di Saramago, poiché se fosse tradotto in italiano suonerebbe come "Saggio sopra una cecità".
Dirò anche che è un testo di lettura difficile e complesso da digerire, perché ci sono parole e descrizioni pesanti come pietre.
La storia è presto detta. Si diffonde rapidamente in un luogo e in un tempo imprecisato una epidemia che provoca l'immediata cecità di coloro che vengono contagiati dal morbo,
Le autorità costituite, non sapendo che pesci prendere, stabiliscono delle severe misure di restrizione della libertà personale dei neo-ciechi che vengono letteralmente "buttati" dentro un ex-manicomio trasformato in lazzaretto. In un una diversa ala dello stesso complesso vengono confinati coloro che hanno avuto contatto presunto o documentabile con i ciechi.
L'unica istruzione che viene loro impartita è "Arrangiatevi come meglio potete", e poi "Vi saranno regolarmente portate delle derrate alimentari che voi stessi dovrete distribuire tra di voi", e poi ancora "Chiunque si avvicinerà alla porta d'ingresso della struttura o si avvicinerà troppo al personale che porterà le scorte di cibo due volte sarà ucciso seduta stante, senza se e senza ma".
E se qualcuno dovesse morire? Come si vedrà saranno gli stessi ciechi a dover provvedere nella corte interna dell'edificio che li ospita.
Non è prevista nessuna forma di assistenza medica. 
Come si può immaginare, le condizioni di vita dei neo-ciechi diventano rapidamente degradanti, fino a che essi non comprendono che, di fatto, sono stati abbandonati a se stessi. 
Infatti il morbo è diventato rapidamente dilagante e si può ipotizzare (dal punto di vista del lettore) che tutti siano diventati ciechi e che, quindi, la società e la sua organizzazione siano andate al tracollo.
In effetti dopo alcuni giorni (o settimane?), non arrivano più le scorte alimentari e scompaiono le guardie armate davanti all'ingresso.
I ciechi finalmente possono uscire dal loro confinamento forzato, ma come?
Questo accade grazie al fatto che una donna del nucleo originario di coloro che sono stati colpiti dalla "cecità bianca" non ha perso la vista come gli altri, ma soltanto finto di esserlo per poter rimanere accanto al marito, medico.
Questa donna, prima con discrezione, poi venendo allo scoperto sulla sua non cecità, si prende in qualche modo cura degli altri, guidandoli e sostenendoli. Si sacrifica, anteponendo alle proprie esigenze personali a quelle dei ciechi.
"Mente perché vuole rimanere accanto alla persona che ama. 'Non può' diventare cieca, perché è l'unica persona capace compassione, di amore, di rispetto per l'altro, capace di un senso di dignità profonda, capace di comprendere" (Paolo Collo, nota a Cecità, in Romanzi e Racconti, vol. II, p. 1751).
Poi, il miracolo: quasi di colpo la "cecità bianca" si dissolve e tutti ritornano a vedere, come se nulla fosse accaduto;  ma a questo punto occorrerà ricostruire il mondo e - c'è da sperare - su basi diverse.
Il primo confronto che verrebbe in mente di fare è con due classici della letteratura che, per me lettore, sono Nel paese dei ciechi di H. G. Wells e Il giorno dei Trifidi di John Wyndham, due opere fondamentali della letteratura di anticipazione.
Ne Il paese dei ciechi il protagonista giunge durante un suo viaggio (o si risveglia) in un lontano paese dove tutti sono ciechi e lui risulta essere l'unico vedente. Comprende presto che il suo destino è segnato: per poter essere accettato dalla comunità e per poter essere omologato dovrà essere reso cieco anche lui. Non ricordo quale sia la conclusione del racconto: se egli accetti di diventare cieco, oppure se non scappi via per mettersi in salvo.
Nel romanzo di John Wyndham (appartenente alla categoria dei racconti SF definibili come "post-apocalittici"), invece, s'è scatenata nel mondo una malattia (forse causata da una pioggia di meteoriti) che ha reso tutti ciechi, all'infuori di pochi soltanto che sono risultati immuni alla noxa sconosciuta. Subito prima di questo tragico evento si erano diffusi capillarmente sulla Terra degli esseri - i Trifidi - a metà tra l'animale e il vegetale (forse di provenienza extraterrestre) che, approfittando del forte handicap dei non vedenti prendono ad utilizzarli come prede e fonte di nutrimento. Si ingaggia una lotta per la sopravvivenza tra i pochi ancora vedenti e i Trifidi.
Il romanzo-saggio di Saramago va al di là di queste narrazioni, mi pare evidente. 
Il suo intento vuole essere più metafisico, nel senso di fornire attraverso attraverso questo impianto narrativo, una rappresentazione dell'Uomo e delle sue peggiori derive, se soltanto si verificano le condizioni ideali perché ciò possa accadere.
La cecità prima che l'effetto di una malattia pandemica è una condizione che l'Uomo si porta dentro ed è dunque una cecità interiore. L'uomo crede di vedere, ma in realtà è già cieco.
La cecità fisica è un evento che è reso possibile da questa preesistente cecità interiore.
Gli accadimenti che scaturiscono dal dilagare del morbo e le reazioni che si manifestano nei colpiti dalla cecità suscitano dei forti movimenti interiori nel lettore e fanno nascere molte domande alle quali è oltremodo difficile rispondere.
Al riguardo, scrive Paolo Collo, curatore delle Opere (Romanzi e Racconti) di José Saramago ne I Meridiani Mondadori (1999):
"A queste domande Saramago apparentemente non risponde. Ci fornisce invece un un quadro: un buio affresco di disperazione sfregiato in più punti da rosse pennellate di violenza. E csosì come il lettore, leggendo il romanzo, si sente sempre più sprofondare in quell'abisso di disperazione e di miseria umane, così pure l'autore confessa tutto il turbamento che gli ha procurato questa scrittura: 'Quanto ho sofferto a scrivere questo libro! E' stato come una lunga malattia… A volte dopo, due pagine, dovevo fermarmi per respirare'. " (ib., Romanzi e Racconti, vol. II, p. 1748)
E, dunque, per questo motivo, forse Cecità di Saramago è più assimilabile a La peste di Albert Camus che, ipotizzando un'epidemia proveniente da un'invasione di topi, discetta sulla natura umana e sulla sua malvagità di base. 

Questa narrazione la si può leggere come una grande allegoria, così come erano pensati e realizzati i vari esempi di "Trionfi della morte", di cui la grande opera custodita all'interno del Palazzo Abatellis di Palermo è uno delle più illustri rappresentazioni.
Qui, tuttavia, nel grande affresco di Saramago vi è una possibile scintilla di redenzione.
Cecità fu pubblicata in lingua originale nel 1995.

Nel 2008, l'opera è stata trasposta in lungometraggio e distribuita con l'omonimo titolo Cecità (Blindness), con la direzione di Fernando Meirelles.

Ho cominciato a leggere Cecità nel 2021, quando eravamo ancora nel pieno del secondo lockdown, dovuto al Covid.
Non ho avuto lo stomaco per continuarne la lettura: mi faceva sentire troppo oppresso.
L'ho ripreso in mano nel 2022 e, questa volta, sono riuscito a finirlo.
Ma devo riconoscere che arrivare sino in fondo mi è costato parecchio.
Ci sono stati dei momenti in cui avrei voluto interrompere la lettura e mettere da parte il volume, a tempo indeterminato.
Tuttavia, ora che ho finito di leggerlo, posso dire di essere contento.
E' una di quelle letture che lasciano un segno indelebile.

 

José Saramago, Cecità, Feltrinelli

(Soglie del testo, edizione speciale Feltrinelli, 2022) «Essere un fantasma dev’essere questo, avere la certezza che la vita esiste, perché ce lo dicono quattro sensi, e non poterla vedere.»
Un automobilista fermo a un semaforo perde la vista, di punto in bianco: è il primo caso di una misteriosa cecità bianca che, rapidissima, si diffonde in tutta la città. Nel tentativo di arginare l'epidemia le autorità raccolgono i malati in un manicomio ma, quando il fuoco distrugge la clinica, i reclusi si riversano all'esterno recidendo gli ultimi legami con una presunta società civilizzata. Niente cibo, niente acqua, niente governo, niente ordine pubblico. Non è anarchia, è cecità.


(Risguardo di copertina della prima edizione Einaudi 1996) In una città qualunque di un paese qualunque, un guidatore sta fermo al semaforo in attesa del verde, quando si accorge di aver perso la vista. All'inizio pensa si tratti di un disturbo passeggero ma non è così. Gli viene diagnosticata una cecità dovuta ad una malattia sconosciuta: un "mal bianco" che avvolge la vittima in un candore luminoso, simile ad un mare di latte. Non si tratta di un caso isolato: è l'inizio di un'epidemia che colpisce progressivamente tutta la città e l'intero paese.
I ciechi vengono rinchiusi in un ex manicomio e costretti a vivere nel più totale abbrutimento da chi non è stato ancora contagiato. Scoppia la violenza tra i disperati, violenza per sopraffare o soltanto per sopravvivere, in un'oscurità che sembra coprire ogni regola morale e ogni progetto di vita: Ma una donna che è miracolosamente rimasta immune dalla malattia si finge cieca per farsi internare poter stare vicina al marito. Un gesto d'amore individuale diventa la possibilità di restituire agli uomini una speranza collettiva: Toccherà a lei inventare un itinerario di salvazione, recuperando le ragioni di una solidale pietà.
Saramago ha scelto la via dell'affresco apocalittico per denunciare con intensità di immagini e durezza di accenti la notte dell'etica in cui siamo sprofondati. Paradossalmente, è proprio il mondo dell'ombra a rivelare molte cose sul mondo di chi credeva di vedere. E quell'esperienza estrema è anche l'ultima occasione per confrontarsi con le domande sul destino dell'uomo malato di egoismo e di violenza, e sulle vie di un possibile riscatto. 

 

José Saramago

L'autore. José Saramago, nato nel 1922 ad Azinhaga (Portogallo) e morto nel 2010, è stato narratore, poeta e drammaturgo portoghese; ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura nel 1998. Costretto a interrompere gli studi secondari fece varie esperienze di lavoro prima di approdare al giornalismo che ha esercitato con successo su vari quotidiani. Dopo il romanzo giovanile Terra e due libri di poesia caratterizzati da una forte sensibilità ritmico-lessicale, si è rivelato acquistando fama internazionale con un'originale produzione narrativa in cui rielaborazione storica e immaginazione mistica e allegorica, realtà e finzione si mescolano in un linguaggio tendenzialmente poetico e vicino ai modi della narrazione orale. Tra le sue opere più note pubblicate da Feltrinelli: Il vangelo secondo Gesù Cristo, Cecità, Tutti i nomi, L'uomo duplicato, L'ultimo Quaderno, Don Giovanni o il dissoluto assolto.
Riconosciuto come uno degli autori più significativi del Novecento, la sua produzione spazia dalla poesia al romanzo, dal teatro La seconda volta di Francesco d'Assisi e Nomine Dei ai racconti storici. Intellettuale raffinato e impegnato, ha spesso fatto discutere per i suoi racconti dissacranti che colpiscono al cuore i mali della nostra società. Nel 1998 l’Accademia di Svezia gli ha conferito il Premio Nobel per la Letteratura premiando le sue qualità di scrittore ma anche l’uomo delle battaglie civili. Fissa in una frase il perché del proprio scrivere: “Le parole sono l’unica cosa immortale: quando uno è morto, ai posteri rimangono solo loro".
Tra le pubblicazioni più recenti per Feltrinelli figurano: nel 2012 Lucernario, romanzo giovanile perduto e ritrovato; nel 2014 Alabarde Alabarde; nel 2019 Diario dell'anno del Nobel.

Il 25 marzo 2020, alle ore 13.00, Porfirio Rubirosa diede inizio, in diretta streaming su Facebook, alla lettura di 'Cecità' di José Saramago.
Lesse ad alta voce, tutte di seguito e senza alcuna interruzione, tutte le 278 fittissime pagine di cui è composto il romanzo, e si fermò solo quando giunse al termine dell'opera, dopo poco meno di nove ore.
Un'impresa unica e uno sforzo fisico massacrante.
E allora.
Se anche tu ritieni che la cultura costi fatica e sacrificio.
Se anche tu pensi che occorra stringere i denti e lottare con ogni mezzo a disposizione contro l'idiozia, la superficialità e le strade facili.
Se la pensi così, fermati un istante, un minuto o anche ore a guardare questo gesto, e metti un like, lascia un commento e condividi questo video.

www.porfiriorubirosa.it
www.facebook.com/porfiriorubirosaofficial
www.instagram.com/ilcapodeidadaisti
  

 / porfi60mdt  
www.patreon.com/porfiriorubirosaofficial

#porfiriorubirosa #cecità #josésaramago

Condividi post
Repost0

Mi Presento

  • : Frammenti e pensieri sparsi
  • : Una raccolta di recensioni cinematografiche, di approfondimenti sulle letture fatte, note diaristiche e sogni, reportage e viaggi
  • Contatti

Profilo

  • Frammenti e Pensieri Sparsi

Testo Libero

Ricerca

Come sono arrivato qui

DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


frammenti-e-pensieri-sparsi.over-blog.it-Google pagerank and Worth