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7 gennaio 2022 5 07 /01 /gennaio /2022 17:08
H. P. Lovecraft, I taccuini di Randolph Carter, Einaudi, 2021

Howard P. Lovecraft è stato una delle mie passioni giovanili. La lettura dei suoi racconti è entrata trionfalmente nel mio scenario mentale subito dopo l’esplorazione dei territori di Edgar Allan Poe.
I suoi racconti mi hanno colpito a dismisura e alcuni dei suoi incubi sono divenuti materiale dei miei stessi incubi notturni, quando mi svegliavo di botto, sudato e con il cuore impazzito.
Lovecraft è uno scrittore che parla di orrori viscerali: egli, con le sue costruzioni da corpo ai suoi deliri ipocondriaci, mettendoli fuori da sé. Spesso egli si ispirava ai suoi stessi sogni, tanto che alcuni lo hanno definito un “onironauta”.
Ma l'aver maneggiato questi materiali nel suo laboratorio di scrittura creativa e averli esternalizzati, non fu per lui un modo sufficiente per liberarsene del tutto: non bisogna dimenticare che il Solitario di Providence - come egli venne definito -, alla fine, cedette ai suoi stessi deliri ipocondriaci che presero a brulicare dentro di lui fino a causarne la morte per tumore intestinale.
Il mio furore per i libri mi ha portato ad impossessarmi, nel corso degli anni, di svariate edizioni delle sue opere, saggi, epistolari e biografie. Di quando in quando mi piace rivisitare qualcuno dei suoi racconti e ogni volta provo gli stessi brividi alla schiena e l’attrazione-repulsione quasi febbrile determinata dalle sue parole e dalle sue architetture narrative, allucinate e deliranti.

Di recente Einaudi ha pubblicato nella collana Letture Einaudi (2021), I taccuini di Randolph Carter, un’edizione critica preceduta dall’esaustiva prefazione del curatore Marco Peano. In questo volume sono stati raccolti i racconti che vedono come narratore-protagonista Randolph Carter, anch’egli scrittore interessato al paranormale e all’occulto e, sostanzialmente, alter ego di Lovecraft.
Questi racconti sono in sé dei gioielli del Gotico e prototipo dell’horror kinghiano.
Le parole di Randolph Carter introducono gradatamente il lettore in una marcia di avvicinamento stringente all’orrore più puro che in quanto tale rimane indicibile ed indescrivibile e può essere visualizzato (e immaginato) solo attraverso i suoi effetti negli incauti esploratori dell’occulto (e di onironauti) che vi si imbattono per curiosità estrema e perniciosa, per desiderio di conoscere o per totale stoltezza.
La scrittura di Lovecraft è sempre eccellente e si presta benissimo alla declamazione ad alta voce.

Mi sento di consigliare questo piccolo volume a quanti desiderassero cominciare ad esplorare l’universo narrativo del Solitario di Providence.

 

(Dal risguardo di copertina) «La prima volta che Randolph Carter fa la sua comparsa è in un breve racconto datato 1919. Come spessissimo accade in Lovecraft, la scintilla creativa che ha dato origine alla scrittura va rintracciata in un sogno; la sua inarrestabile vita onirica lo spinse col tempo a darsi un compito: afferrare l'impalpabilità delle visioni prodotte dal suo subconscio per poter riversare ogni cosa sulla pagina. Svegliandosi nel pieno di un incubo - con le immagini ancora vivide impresse nella memoria, cercando di prolungare a dismisura lo stato di dormiveglia - si metteva a scrivere tutto quanto riuscisse a ricordare prima che svanisse ogni traccia. E fu cosí che in una notte di dicembre Lovecraft sognò, e poi trascrisse sul suo taccuino nella maniera piú accurata possibile, la storia di un uomo (se stesso, a cui avrebbe dato il nome di Randolph Carter) che insieme a un amico si avventura in un cimitero spingendosi «nelle spire del puro orrore». Il suo alter ego piú importante era appena nato». - dalla prefazione di Marco Peano

Noto soprattutto per i «Miti di Cthulhu», Lovecraft ha parallelamente edificato un universo di altipiani desolati, lande sterminate, abissi senza fine, giardini lussureggianti e antiche rovine. Un paesaggio inafferrabile eppure concretissimo che testimonia un passato fatto di palazzi dalle guglie dorate e di mari tempestosi a cui si può accedere soltanto sognando. Sono luoghi dove la nostalgia e il fantastico compongono un impasto unico e prezioso. È proprio in questo contesto che si muove e agisce Randolph Carter, riconoscibilissimo alter ego dell’autore e protagonista di un ciclo di storie composte tra il 1919 e il 1932: questo volume vuole illuminare una zona meno esplorata della narrativa di Lovecraft, quella onirica, dove l’orrore è soltanto suggerito, bisbigliato, intravisto. Un tassello fondamentale nel percorso di un autore che non cessa di parlare al nostro presente.

Stelle si dilatarono fino a farsi albe e albe esplosero in fontane d'oro, carminio e viola - e ancora il sognatore cadeva

Howard Philip Lovecraft

L'autore. H. P. Lovecraft (Providence, Rhode Island, 1890-1937) è uno scrittore statunitense. Influenzato da Poe e dalla tradizione «gotica», pubblicò su riviste specializzate le sue storie di orrore e di fantascienza, raccolte in volume soltanto dopo la morte, quando fu finalmente annoverato tra i geniali creatori del «fantastico» contemporaneo. Il richiamo di Chthulhu (The call of Chthulhu, 1929) è il più famoso di una serie di racconti in cui compaiono i Grandi Anziani, divinità preistoriche in grado di superare le barriere spazio-temporali, mentre La casa delle streghe (The dreams in the witch house, 1932) narra la storia di uno studente di fisica quantica che dalla propria stanza s’inoltra negli abissi di un’America visionaria. Tra le altre opere più note sono L’orrore di Dunwich (The Dunwich horror, 1927) e Le montagne della follia (At the mountains of madness, 1936) che si apre su paurosi paesaggi onirici, rivelando il debito di L. verso il Gordon Pym di Poe. L. è anche l’autore di un importante saggio sul «fantastico», L’orrore soprannaturale in letteratura (Supernatural horror in literature, 1927).

 

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16 dicembre 2021 4 16 /12 /dicembre /2021 10:47

Questo mi ritrovai a scrivere, una decina di anni fa (il 16 dicembre 2010) in occasione di una nuave edizione (con nuova traduzione) di un classico autobiografico di Jack London

Jack London, John Barleycorn, Mattioli 1885, 2010

Per chi ama la grande scrittura di Jack London, è uscita il 9 dicembre 2010 una nuova edizione di John Barleycorn. Memorie alcoliche,  curata da Davide Sapienza uno dei massimi conoscitori dell'opera del grande scrittore nordamericano, per l'editore Mattioli 1885, che sta ripubblicando vere e proprie chicche di London In questo testo,  per la prima volta dato alle stampe nel 1913, vi è l’autobiografia di un bevitore (rispecchiante senza pudori le personali esperienze dell'autore), dal rifiuto dell’alcol all’impossibilità di vivere senza, sino alla difficile vittoria finale.

"Il John Barleycorn di queste pagine è un vero e proprio personaggio che si incunea nella personalità, che spezza in due l'essere umano, che lo aiuta ad auto ingannarsi: una figura che appartiene alla vita di milioni di persone e non per forza sotto forma di dipendenza dall'alcol (la lobotomia della televisione odierna, è probabilmente il nostro John Barleycorn più insidioso che addormenta le coscienze e distrugge i sentimenti profondi). London scrisse John Barleycorn consapevole di dare scandalo, perché mai prima di allora uno scrittore così famoso aveva fatto un simile coming out nel nome del popolo, che nel libro egli definisce come la sua ultima illusione" (dalla prefazione di Davide Sapienza)

Alla sua uscita, l'opera di Jack London ebbe una vasta risonanza; sia perchè per la prima volta un bevitore veniva allo scoperto raccontando la sua esperienza sino al punto dell'"aver toccato il fondo" (esperienza negata alla fine del testo dallo stesso autore: "Ma la mia non è la storia di un ubriacone redento. Non sono mai stato un ubriacone e non mi sono mai redento", p.248, edizione 1980), sia perchè il suo contenuto s'innestava sulle campagne moralizzatrici tendenti a ridimensionare, nella società anglosassone e nordamericana del tempo, l'abuso alcolico, in cui faceva comodo indubbiamente rappresentare lo stesso Jack London come un ubriacone perso. Vedi ad esempio l'azione pressante in questo senso dell'Esercito della Salvezza negli Stati Uniti od anche il movimento dei tee-totallers in Gran Bretagna.

Infatti,  "...ministri di culto lo considerarono [e lo citarono come - nda] una lezione morale contro l'alcoolismo, movimenti a favore della sobrietà, organizzazioni proibizionistiche, leghe antisaloon, ne fecero proprio l'assunto, ne stamparono stralci in opuscoli che diffusero a centinaia di migliaia di copie... Dal libro fu tratto un film; i distillatori impegnarono grosse somme di denaro per farlo sopprimere (...) Benchè vi avesse dipinto la sua vittoria sull'alcool, il pubblico che così spesso stravolge il senso di ciò che legge, bollò Jack London come un ubriacone..." (da un commento di Irving Stone, citato in quarta di copertina dell'edizione italiana del 1980, per i tipi di Serra e Riva Editore, con la traduzione di Stefania Bertola).

Mitografia di John Barleycorn

Il titolo del romanzo autobiografico di Jack London è, peraltro, cogente ed evocativo, sia perchè si innesta nella cultura pop-rock, sia perchè affonda le sue radici nel mito e nelle credenze arcaiche del mondo contadino.

John Barleycorn (letteralmente: John Grano d'Orzo) è un album della progressive rock band inglese Traffic, pubblicato nel 1970. Il brano dell'album che dà il titolo alla raccolta è l'arrangiamento di una ballata tradizionale inglese e, per chi si ricorda, venne anche incluso nella colonna sonora del film Nirvana di Gabriele Salvatores.

"John Barleycorn" è una ballata tradizionale diffusa in Inghilterra e in Scozia, incentrata su questo personaggio popolare, che è poi lo spirito e la personificazione della birra e del whisky.
Del testo della canzone esistono diverse versioni, raccolte in varie epoche, a partire dal 1600, tra cui una versione più ampia curata dal poeta nazionale scozzese Robert Burns. Di seguito, si può leggere la traduzione del brano nella versione più comune, quella usata dai Traffic. Molti altri cantanti e gruppi inglesi hanno comunque interpretato questo pezzo tradizionale: gli Steeleye Span, Martin Carthy, John Renbourn e altri.
Nella canzone tradizionale inglese confluiscono miti, credenze e usanze scaramantiche che arrivano direttamente dagli albori della civiltà, dall'inizio della civiltà contadina, usanze che sono state seguite in Inghilterra in queste forme fino ai primi decenni del '900.

 

C'erano tre uomini che venivano da occidente, per tentare la fortun
e questi tre uomini fecero un solenne voJohn Barleycorn deve morire
loro avevano arato, avevano seminato, loro avevano dissodato
e avevano gettato zolle di terra sulla sua testa
e questi tre uomini fecero un solenne voto
John Barleycorn era morto
lo lasciarono giacere per un tempo molto lungo, fino a che scese la pioggia dal cielo
e il piccolo sir John tirò fuori la sua testa e lasciò tutti di stucco
loro l'avevano lasciato steso fino al giorno di mezza estate e fino ad allora lui era sembrato pallido e smorto
e al piccolo Sir John crebbe una lunga lunga barba e così divenne un uomo
loro avevano assoldato uomini con falci veramente affilate per tagliargli via le gambe
l'avevano avvolto e legato tutto attorno, trattandolo nel modo più brutale
avevano assoldato uomini con i loro forconi affilati che avevano conficcato nel (suo) cuore
e il carrettiere lo trattò peggio di così
perché lo legò al carro
e andarono con il carro tutto intorno al campo finché arrivarono al granaio
e fecero un solenne giuramento sul povero John Barleycorn
assoldarono uomini con bastoni uncinati per strappargli via la pelle dalle ossa
e il mugnaio lo trattò peggio di così
perché lo pressò tra due pietre
e il piccolo Sir John con la sua botte di noce e la sua acquavite nel bicchiere
e il piccolo sir John con la sua botte di noce dimostrò che era l'uomo più forte dopo tutto
il cacciatore non può suonare il suo corno così forte per cacciare la volpe
e lo stagnaio non può riparare un bricco o una pentola senza un piccolo (sorso) di grano d'orzo.

Il significato metaforico del testo è abbastanza chiaro: è una allegoria della produzione del whisky, "nettare" in cima ai desideri alcolici degli inglesi, dalla semina fino al raccolto; ma perché il piccolo John Barleycorn deve essere ucciso, e perché in questo modo brutale? E dopo essere diventato un uomo?

Sembrerebbe che, nella ballata, convergano delle rappresentazioni ben più antiche sulla morte e la rinascita, collegate agli antichi riti pagani della fertilità.

La copertina dell'album dei Traffic

John Barleycorn così è la personificazione dello "spirito del grano", che si ritrova in tutte le società agricole fin dalla preistoria, a volte in forma maschile a volte in forma femminile (la madre del grano).

Lo spirito del grano è la spiegazione mitica del mistero contenuto nel continuo rinnovarsi della vita: dai semi del grano vecchio (che muore) nascerà l'anno successivo il nuovo raccolto.

La nascita del grano nuovo, e quindi del cibo, fonte principale e quasi unica di sostentamento e vita nella civiltà contadina, non era certo un fatto secondario: giustificava attenzioni particolari, fino a sacrifici propiziatori rituali, in alcuni casi anche umani, o, più tardi, a rappresentazioni allegoriche degli antichi sacrifici.

Perché lo spirito del grano doveva morire? Era una metafora del ciclo della mietitura, il grano crescente doveva essere mietuto, quando finiva era finito il raccolto; il mietitore che mieteva l'ultimo covone simbolicamente uccideva il raccolto di quell'anno, e quindi, così facendo, uccideva lo spirito del grano, prendendo in qualche modo su di sé la sventura della fine della vita e della morte.

Ma lo spirito sarebbe rinato l'anno dopo, bastava sincerarsi che morisse in modo certo per garantirne la rinascita: per questo motivo doveva essere inscenata una uccisione simbolica e inappellabile (nella canzone è il "voto solenne"), con le forme e la brutalità del sacrificio.

Le modalità simboliche dell'uccisione descritte nella canzone sono proprio quelle in uso nelle campagne inglesi del Devonshire e della Scozia fino ai primi decenni del '900.

 

Jack London: John Barleycorn. Memorie alcoliche (ed. Mattioli 1885)

 

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6 dicembre 2021 1 06 /12 /dicembre /2021 06:50
Meridiani e melograno vizzo (foto di Maurizio crispi)

Ci sono certe combinazioni di dettagli che, se riesci a coglierli estrapolati da tutto il resto, assumono un fascino incredibile, come se fossero stati messi lì proprio per provocare quell'effetto.

Ma devi poter vedere, per renderti conto: un vedere, che non sia un semplice guardare che si limita all'apparenza degli oggetti che si presentano alla nostra attenzione e alla loro mera fisicità.
La buona Letteratura (ed anche la Fotografia, anche se con un linguaggio ben più sintetico ed immediato) sono così.

Assolvono alla funzione di aiutare altri a "vedere".

Lo scrittore, in questo senso, è un "visionario" perché con le sue affabulazioni non fa che proporre realtà alternative o realtà nascoste nelle pieghe del Reale ordinario, apparentemente prosaico e scontato.

Entrare e stare in una libreria è come penetrare all'interno di uno scrigno di tesori: come avere accesso alla caverna di Ali Baba e dei quaranta ladroni, piena all'inverosimile di inenarrabili tesori.

Per poterli vedere ed ammirare occorre conoscere la parola magica che possa di volta in volta introdurti in quel mondo fantastico e consentirti di accedere allo scrigno che li contiene.

(Una mia breve nota, risalente al 2012)

La foto la scattai al "Punto Einaudi" di Palermo (Francesco Passarello)

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29 novembre 2021 1 29 /11 /novembre /2021 07:32
Libri e torri di libri (foto di Maurizio Crispi)

Questa nota, risale a circa 11 anni fa (27 novembre 2010). Mi ci sono imbattuto casualmente, attraverso i "ricordi" riproposti dall'algoritmo di Facebook. Si tratta di uno scritto che non ho mai pubblicato nei mie blog. Sono lieto di riproporlo qui. Sempre attuale...

Ieri, camminando ho visto un cumulo di rifiuti che ingombrava il marciapiedi

Erano tanti, davvero tanti, e sparsi tutti in giro:

per proseguire il mio cammino,

ci dovevo per forza camminare di sopra.

Si strattava di vecchi stracci, vecchie riviste e libri.

Poveri libri smembrati pronti per il macero...

E' una cosa tristissima vedere i libri buttati via:

se posso li recupero e me li porto a casa. Li accudisco. lì sistemo.

A volte la gente non capisce proprio nulla

Dico io: ma come si fa a buttare un libro?

Questa volta la mia attenzione è stata catturata

dalle pagine disassemblate di un libro in particolare...

Un tempo rilegato con le cuciture,di grande formato,

con le pagine scritte a caratteri fitti, disposti su due colonne.

Il frontespizio salvo.

Della copertina rigida nessuna traccia,

mentre le quinterne di pagine

erano desolatamente sparse in giro senza nessun ordine

Aveva piovuto e molte dei fogli erano già intrisi d'acqua

S'intravedevano delle belle illustrazioni:

alcune, in quadricromia, a piena pagina fuori testo;

altre a tratti grossi di penna nera, molto semplici a mezza pagina.

Dal frontespizio si leggeva il titolo "Fiabe di tutto il mondo"

Mi sono emozionato: quelle illustrazioni hanno evocato subito qualcosa.

Era lo stesso volume (appartenente ad un'opera in più tomi)

che possedeva la zia Mariannù e da cui lei frequentemente mi leggeva ad alta voce

quando ero ancora un bimbetto

Mi piacevano moltissimo quei libri

che per me erano magici

Quando mia zia aveva terminato di leggermi la fiaba del giorno,

io indugiavo a lungo a guardare le figure

Ho sempre pensato a quei libri,

come appartenenti ad una sorta di Eden perduto

Quando la zia si sposò con il marito Joe

e andò a vivere a New York

quei libri - credo - li portò con sé.

Chi sa dove saranno adesso,

ora che la zia è morta

Forse perirono in un incendio:

la casa della zia, prima che lei morisse,

andò a fuoco e nulla si salvò dal rogo

Quel libro smembrato mi ha riempito di tristezza.

Avrei voluto prenderlo, ma ormai era troppo tardi per metterlo in salvo.

Così, ho girato le spalle e me ne sono andato

con il cuore dolente ed un groppo in gola

 

Palermo, il 27.11.2010

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4 novembre 2021 4 04 /11 /novembre /2021 10:27
Koontz, Il Silenzio Uccide, Sperling&Kupfer, 2017

Dean R. Koontz, da sempre, si può considerare il grande antagonista di Stephen King.
Carriera simile, poichè entrambi hanno cominciato come insegnanti di scuola prima di darsi alla scrittura a tempo pieno: e ciascuno ha al suo attivo un numero incredibile di libri. Forse quanto a numero Koontz batte King, dal momento che i suoi libri sono oltre 120. Koontz ha scritto prevalentemente romanzi e si è poco occupato della narrativa breve. E, inoltre, molti dei primi romanzi sono piuttosto brevi adatti ad una pubblicazione in collane pulp.
D'altra parte sia Koontz, sia King hanno un seguito di infiniti lettori: Koontz, in particolare, ha al suo attivo più di 500 milioni di copie vendute. Come King - a differenza di alcuni scrittori di bestseller di successo - Koontz è un artigiano della scrittura. Non si avvale - a mio avviso - dell'opera di scrittori-ombra e nemmeno di un team composto da professionisti con funzioni diversificate per tracciare l'approccio ad un nuovo romanzo e costruirne l'ossatura.
Con "Il silenzio uccide" (titolo originale: The silent angle, nella traduzione di Tessa Bernardi), pubblicato da Fanucci Editore (TimeCrime), si vede l'esordio di una tetralogia che ha come protagonista l'agente FBI, Jane Hawk.
Il titolo della traduzione italiana è lievemente fuorviante rispetto a quello inglese che è - come ho scritto - "The Silent Angle", per spiegare il quale l'Autore ha inserito in epigrafe il seguente lemma:
"L'angolo del silenzio: Chi sparisce dalla circolazione e non può essere rintracciato da alcuna tecnologia, ma è comunque in grado di muoversi liberamente e di usare internet, si trova nel cosiddetto angolo del silenzio".
La nostra eroina, dopo la morte del marito per suicidio, non essendo affatto convinta che si sia trattato di questo, comincia ad indagare sotto traccia su analoghi casi di morte apparentemente autoinfilitta, avvicinandosi a poco a poco ad un'inquietante verità.
Il romanzo è scritto con uno stile più asciutto rispetto alla prosa molto rifinita utilizzata da Koontz nei suoi ultimi romanzi, con un'oscillazione tra noir e detective story, percorsa da venature fortemente complottiste.
Infatti, Jane Hawk scopre ben presto che la sua curiosità, il suo mettere il naso dove non dovrebbe,  sta suscitando delle reazioni e che, di consegenza, lei e i suoi cari sono tenuti sotto mira e sono, forse, a rischio di vita. Jane Hawk deve pertanto mettersi nell'"angolo del silenzio" per poter continuare indisturbata ed illesa la sua ricerca, trovando nel percorso inaspettate ed improbabili alleanze.
Senza dire nulla oltre questo della trama per evitare di fare spoiling, dirò soltanto che qui, oltre all'aspetto poliziesco e agli inevitabili risvolti di momenti di azione (uccisoni e sparatorie), convergono tematiche differenti che sono quelle dei gruppi occulti che tendono a realizzare un controllo totale della popolazione, altrimenti ignara, e quella dell'utilizzo aberrante di nanotecnologie per scopi deprecabili, e infine quella dello scienzato pazzo che, perseguendo la sua voglia di manipolazione, si trasforma in demiurgo onnipotente, stravolgendo l'etica della ricerca scientifica. 

Richard Condon, Il candidato della Manciuria

Il romanzo, sviluppando questo filone, rende peraltro omaggio allo splendido romanzo di qualche decennio fa, Il candidato della Manciuria di Richard Condon (The Manchurian Candidate) che in una parte del testo viene espressamente citato.
Una lettura che, a me, è risultata appassionante.

(dal risguardo di copertina) Dopo aver perso suo marito, Jane Hawk è una donna a pezzi. Giovane marine pluridecorato, Nick è morto suicida, lasciando ai suoi cari un biglietto agghiacciante al quale la moglie non riesce a rassegnarsi. Convinta che Nick non avrebbe mai potuto compiere un gesto simile e abbandonare da un giorno all'altro lei e il piccolo Travis, Jane è decisa a scoprire la verità, costi quel che costi. Lasciato il lavoro, si immerge anima e corpo in un'indagine serrata per capire cosa si nasconda dietro l'allarmante aumento del tasso dei suicidi in America. Suo malgrado, però, si ritrova a scoperchiare un terrificante vaso di Pandora e a trasformarsi nella fuggitiva numero uno di potenti e spietati nemici senza volto né nome, custodi di un delicato segreto e pronti a far fuori chiunque intralci il loro cammino. La cospirazione implacabile e senza scrupoli che ordiscono per costringerla al silenzio non sembra tuttavia sufficiente a fermare una donna intelligente e coraggiosa come Jane, guidata da una rabbia nata dall'amore che i suoi nemici non sono in grado di provare né comprendere...
Determinazione, adrenalina e suspense per una storia che con passo silenzioso conduce ad un'amara conclusione.

L'autore. Dean R. Koontz, nato nel 1945 in Pennsylvania, é autore di thriller di successo e autore bestseller di fama internazionale. Per tanti anni è stato insegnante di Inglese in una scuola superiore, prima di dedicarsi alla scrittura, pubblicando nel 1968 il suo primo romanzo: Jumbo-10. Il Rinnegato. Con più di 120 titoli all’attivo e oltre 500 milioni di copie vendute, Dean Koontz è considerato uno dei maestri del genere thriller. Il silenzio uccide, con cui fa il suo ingresso nel catalogo Timecrime, è stato opzionato per una serie tv prodotta da Paramount Television e Anonymous Content. Seguono La notte uccide (Jane Hawk#2), e L’inganno uccide (Jane Hawk#3), tutti pubblicati nel catalogo Timecrime. Nel 2020 esce Abisso. Coronavirus: il romanzo della profezia (Timecrime).

 

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9 ottobre 2021 6 09 /10 /ottobre /2021 11:27
Roberto Sottile, Suca. Storia e usi di una parola, Navarra Edizioni, 2021

Ho appena finito la lettura di Suca. Storia e usi di una parola di Roberto Sottile (edito da Navarra Editore nel 2021). Si tratta di un piccolo, ma esaustivo trattato sulla celebre parola che, inizialmente espressione disfemica confinata all’uso linguistico siciliano, si è progressivamente universalizzata.
Si tratta di un vero e proprio saggio linguistico, reso accessibile alla fruizione di molti grazie all’inserimento in coda al volume di un glossario che spiega in un linguaggio semplice i termini più astrusi della disciplina linguistica.
L’autore analizza nel volume tutti i diversi aspetti dell'icastica espressione che altri hanno definito l’”imperativo popolare”, comprendendo nella sua analisi le scritture esposte e il linguaggio dei media, oltre ai sempre più numerosi esempi del suo utilizzo nella letteratura contemporanea.
Il volume è arricchito da un apparato di note e da una cospicua bibliografia delle opere citate, ed è corredato da immagini esemplificative e paradigmatiche.
Roberto Sottile, docente di Linguistica italiana del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Ateneo palermitano, è deceduto improvvisamente l’8 agosto 2021.
È stato sempre apprezzato per l’originalità della sua ricerca, fortemente radicata nella sua terra.

 

(Dal risguardo di copertina) L'origine della parola siciliana suca è rintracciabile nel verbo sucari 'succhiare', con un valore originariamente triviale. Ma, nel tempo, "l'imperativo palermitano" ha sviluppato una miriade di significati e usi figurati che si sono via via affermati in ambiti comunicativi diversi dal dialetto: nell'italiano colloquiale come nell'italiano giovanile, nelle scritture esposte come nei social, nei mass media come nel linguaggio delle tifoserie calcistiche. E, piano piano, ha perfino cambiato forma passando da SUCA a 800A e dimostrandosi capace di trasformarsi ancora, fino a diventare 751A. Oggi, suca e le varie espressioni in cui ricorre si usano per negare qualcosa o per esprimere una certa contrarietà nei confronti di una richiesta, una situazione, una "verità", ma questa contrarietà procede per gradi: può essere più forte o più attenuata a seconda che con essa si voglia comunicare rabbia o sfida, un sentimento di scherno oppure di dispetto. A Palermo, dove l'imperativo è nato, continua a reinventarsi, con nuove soluzioni grafiche e nuovi sensi figurati, trovando anche applicazioni nell'arte e nell'ambito di un costituendo Made in Sicily. Con un glossario di Kevin De Vecchis. Foto dell'opera di Giuseppe Mazzola.

 

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15 settembre 2021 3 15 /09 /settembre /2021 13:47

Scienza ed etica delle maschere della salute interagiscono dialetticamente in modo esplicito all'interno della 'logica medica' di qualsiasi estradizione. Sono due dimensioni che (paradossalmente) si sovrappongono storicamente sia nell'ambito della cultura medica occidentale (biomedicina), che nell'ambitodelle culture mediche tradizionali (etnomedicina). In entrambi questi contesti i "professionisti della salute' (i chirurghi e i medici da una parte, gli stregoni e gli sciamani dall'altra) usano le maschere come strumenti per prevenire (l'infezione e la malattia) ed evitare (il maligno e il male), ma anche ad assistere (le maschere terapeutiche per la ventilazine assistita) per guarire il malato e a curare (con le maschere-talismano apotropaiche) per 'allontanare' la malattia (...)

Vittorio A. Sironi, Le maschere della solute, capitolo conclusivo, pag. 110

'Mascherarsi' rappresenta oggi, in piena pandemia, un dovere personale, un atto indispensabile da parte di chi è consapevole e responsabile. L'inosservanza di questo dovere civico, a volte esibita con con indifferenza o addirittura con tracotanza, è un gesto che 'smaschera' la persona irresponsabile, colpevole di non rispettare gli altri e di disprezzare il prossimo.

ib. pag. 110

Vittorio A. Sironi, Le Maschere della Salute. Dal Rinascimento ai tempi del Coronavirus, Carocci Editore, 2021

Sono ormai diverse decine i volumi sugli argomenti più svariati che, usciti in tempo di Covid,  spaziano dalla narrativa distopica (si veda ad esempio il recente romanzo di Tullio Avoledo in cui si allude alla pandemia che fa da sfondo alla sua vicenda come a "La Situazione") alla diaristica ai saggi che tentano di raccontare lo stato dell'arte della pandemia, utilizzando i più diversi vertici di osservazione.
In questo variegato panorama, si distingue particolarmente il saggio del'antropologo e storico della Medicina, Vittorio A. Sironi, con il titolo Le maschere della salute. Dal Rinascimento ai tempi del coronavirus, pubblicato da Carocci Editore (Biblioteca di testi e studi, sezione Sanità e Professioni Sanitaria), nel corso dei primi mesi del 2021
Ed è di particolare interesse perchè tratta, in maniera longitudinale (dall'antichità ad oggi) e trasversale (l'uso delle maschere protettive e quindi genericamente denominarte come le "maschiere della salute", dell'utilizzo delle maschere protettive nei più diveri ambiti e  Questo saggio è in grado di fornire tutte le risposte necessarie per saperne di più sulle "mascherine" e della loro funzione.
Esse non sono un oggetto "alieno" piovuto su di noi a causa della pandemia da Coronavirus, ma qualcosa che, in mille fogge diverse, ha accompagnato le pratiche mediche (e non solo), sin dai primordi a partire dalle attività dei guaritori tribali e degli sciamani.
Esse - le mascherine - sono "le maschere della salute" del titolo, poiché, in varia misura, servono - e sono servite - a tutelare la salute, a proteggere e, in alcuni casi, a garantire il mantenimento delle funzioni vitali ed anche a guarire (si veda ad esempio il caso della maschera respiratoria collegata ad un pallone Ambu, oppure di quelle respiratorie collegate ai ventilatori polmonari).
Leggendo il testo - un capitolo dopo l'altro - si acquisiscono tutti gli elementi di conoscenza per rappacificarsi con la "mascherina" (vista non solo come presidio medico, ma anche come strumento di convivenza sociale) e rendersi conto che il loro utilizzo non solo potrà essere utile ancora molto a lungo per limitare i danni dell'attuale pandemia, ma potrebbe essere un presidio di cui continuare a servirsi anche in futuro per garantire una minore propagazione degli agenti infettivi (nel corso del 2020 ed anche del 2021, l'uso esteso della mascherina ha garantito il crollo delle malattie infettive stagionali, ad esempio). Non manca un capitolo molto approfondito sulla simbologia delle maschere della salute e sulle ricadute psicologiche del loro utilizzo.
Il volume è arricchito da una ricca documentazione iconografica, da un apparato di note e da un'accurata bibliografia, perchè è concepito come un vero e proprio saggio scientifico, benché scritto con prosa accattivante e fluida.
Il testo è preceduto da una premessa di Giorgio Cosmacini, illustre storico e filosofo della Medicina, ed è  seguito da una postfazione dell'antropologo Antonio Guerci.
Ne suggerisco vivamente la lettura, poichè prima di dire di no, occorre leggere e documentarsi, attingendo a testi accreditati, anziché basarsi su notizie scarsamente verificabili e piene di pregiudizi che circolano nel web e che alimentano le posizioni insensate di complottisti, negazionisti, no-vax e quant'altro.

 

(Quarta di copertina) Consigliate o addirittura obbligatorie, le mascherine protettive sono entrate a far parte della nostra vita, diventando il segno visibile dell'emergenza legata alla pandemia di Covid-19. Sono una barriera protettiva per impedire il contagio, un confine per separare la popolazione sana da quella malata, un nuovo indumento che cela parte del viso rendendo difficile riconoscere l'identità individuale. Queste "maschere della salute" hanno una lunga storia in ambito medico (dalle maschere della peste alle mascherine chirurgiche) e costituiscono ormai strumenti di prevenzione anche nel lavoro e nello sport. Il loro significato supera talvolta la semplice funzione sanitaria e protettiva, assumendo una rilevanza simbolica con implicazioni psicologiche e sociali, culturali e antropologiche. Tutte dimensioni che, insieme a quella storica, sono analizzate in questo volume.

L'Autore. Vittorio A. Sironi, neurochirurgo, storico e antropologo, insegna Storia della Medicina e della Sanità e Antropologia Medica all'Università di Milano Bicocca, dive dirige il Centro Studi sulla storia del pensiero biomedico (www.cespeb.eu). E' autore di numerosi studi sulla storia della medicina e della salute.

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16 luglio 2021 5 16 /07 /luglio /2021 10:05

...dopo più di dodici mesi dall'annuncio del primo lockdown, è nata l'esigenza di raccogliere in un unico volume storie e testimonianze sul difficile momento 'storico' vissuto non solo dalla prospettiva delle componenti dell'associazione DonnaAttiva, promotrice di questa pubblicazione, ma anche di alcuni protagonisti del mondo della cultura, del giornalismo, dello spettacolo e delle professioni che hanno voluto esprimere il loro personale punto di vista su ciò che maggiormente ha caratterizzato l'esperienza della pandemia all'interno dei loro rispettivi ambiti di vita e d'azione.

dalla prefazione di Giuseppe Gangemi, curatore del progetto

AA.VV., Dalla pandemia alla Pangioia, Ex Libris Edizioni, 2021

Il volume "Dalla Pandemia alla Pangioia. Emozioni e sensazioni raccontano i duri mesi del Coronavirus (per i tipi di Edizioni Ex Libris, collana "Lo Zibaldone", 2021)  è il frutto di uno sforzo comune che ha coinvolto decine di protagonisti, come voci narranti dei mesi più duri della pandemia.
Si tratta di diverse tipologie di narrativa, come esprime la tripartizione del volume, ma tutte accomunate dal desiderio di esprimere qualcosa, di raccontare le emozioni e i turbamenti , le gioie e le speranze del periodopandemico, a partire dal primo lockdown, quello più duro,sino ai tempi recentissimi che ha visto ha visto per tutte le regioni italiane la conquista del colore bianco (nella gamma cromatica dell'Italia dei molti colori che aveva contraddistinto la terza ondata).
Conosciamo bene la parola "pandemia" nelle sue accezioni lessicali, mentre come lettori di questo volume ci ritroviamo davanti ad un neologismo, sin dalla titolazione,  e cioè la parola "pangioia", che si colloca quasi come antitesi ad una tesi, indicando in altri termini che ciò di cui si vuole discutere nel volume sarà un transito, una transizione da uno stato all'altro: come a dire che dopo l'epidemia diffusa su scala mondiale, dovrà aprirsi un nuovo capitolo caratterizzato da una gioia universale e "pandemica" anch'essa.
E questa è certamente una possibile narrativa, anche se non so sino a che punto sia lecito accettarla: ma è apprezzabile lo sforzo di voler vedere in quest'esperienza globale che ci ha coinvolti (e che continua a coinvolgerci) un andamento bifasico; e, cioè, prima la pandemia con il suo carico di restrizioni, di morti e di sofferenze   e, dopo, la gioia universalistica per la ripresa e per il ritorno ad una vita "normale", purchè - ma questo è il mio pensiero - la normalità non sia il ritorno agli assembramenti, alla retorica del calcio, alle celebrazioni vuote, a forme di economia drogata, ai licenziamenti e alle delocalizzazioni selvaggie.
In questo senso, se le cose dovessero tornare, a quello che erano prima di Wuhan, ci sarebbe forse poco da gioire: Mariana Mazzucato nel suo recente libro, "Non sprechiamo questa crisi" (Laterza, 2021) che contiene una raccolta dei suoi più recenti articoli divulgativi sulle difficoltà che fronteggiamo dall'inizio della pandemia, dice che la pandemia con le conseguenze economiche che ha avuto, ha aperto una crisi di immani proporzioni nell'economia mondiale e che questo potrebbe dare adito a due diverse strade nella fase della "ricostruzione" e nel ritorno ad una possibile "normalità". Una sarebbe quella di riportare lo stato delle cose a quello che erano prima della pandemia, nè di più, né di meno. L'altrapossibilità, forse più feconda, e che alcuni stati nel mondo hanno provato a costruire sarebbe quella di operare un radicale cambiamento dei principi su cui si é fondata l'economia del XX e dei primi due decenni del XXI secolo: una strada che porti a ridimensionare il ruolo dello Stato appaltatore che si limita a dare mandati a imprese che funzionano nella logica liberista (o peggio ancora neo-liberista o forse addirittura iper-liberista) enfatizzando (o recuperando), invece, il suo ruolo di imprenditore, in modo tale che i fondi stanziati non vadano ad implementare il tornaconto dei privati ma possano essere di supporto ad un'imprenditoria per così dire "sociale", che provveda al benessere delle moltitudini.
E quest'assetto, in una logica delle interconnessioni, potrebbe essere estremamente utile, dal momento che la pandemia di cui ancora oggi soffriamo è appunto figlia delle strategie dello sfruttamento del pianeta e delle strategie dell'arricchimento di pochi a fronte dell'impoverimento sempre maggiore delle moltitudini.
Forse un attteggiamento di "pangioia" sarebbe più appropriato se si intraprendesse la seconda via, quella che in altre termini porterebbe (o potrebbe portare) ad una rivoluzione copernicana dei fondamenti su cui si basa la nostra economia.
Poco c'è da gioire, quando - ad esempio - con l'arrivo di Luglio è stato posto termine alla moratoria dei licenziamenti sicché, di fatto, alcune aziende anche fiorenti hanno deciso di smobilitare licenziando in tronco (con una semplice mail) centinaia di dipendenti.
Ciò nondimeno, è apprezzabile il wishful thinking che pervade il titolo del volume e che trapela dalla maggior parte dei contributi contenuti in questo volume il cui tono generale sembra voler dire: un modo, un mondo nuovo, sono possibili e quindi gioiamo! Forse la colonna sonora adeguata per questo prezioso libro potrebbe essere l'Ode alla Gioia di Friedrich Schiller, incluso da Beethoven nella sua apoteosi sinfonica. L'ode alla gioia (An die Freude, 1785)  d'altra parte invitava ad esultare in un empito di fratellanza universale e condivisione, e - non a caso - è stato prescelto (ma senza le parole di Schiller) per essere - a partire dal 1972 - l'inno dell'Unione Europea
Come il movimento finale della IX introduce - in modo nuovo e inaudito per quel tempo  - il meraviglioso coro che intona con gioiosa solennità e potenza vocale, i versi dell'inno di Schiller, così questo volume si presenta come un coro di voci, le più diverse e tante soprattutto: infatti, Il progetto editoriale si è proposto di dare voce a quante più persone fosse possibile, per estendere democraticamente la possibilità di dar corpo ad una narrativa universalistica degli eventi pandemici e dei mesi che infine hanno portatoad una parvenza di normalità, temporanea quanto meno. Già, perchè malgrado si possa comprensibilmente essere animati da ottimismo e voler vedere ad ogni costo il bicchiere mezzo pieno, la pandemia non ha ancora cessato di colpire e, in più, in una lettura autenticamente universalistica, bisogna uscire dalle logiche regionalistiche per guardare al mondo come ad un tutto unico: e ancora molti dei paesi del terzo e quarto mondo non possono gioire per aver toccato con mano un autentico punto di svolta nel decorso della pandemia. Ma c'è anche da dire che qui  in Europa, a causa di certe scelte dissennate  e deliberate omissioni rispetto all'applicazione delle regole anti-Covid tuttora vigenti (si veda al riguardo quel che è successo con i turni di semifinale prima e con la finale poi degli Europei di Calcio 2020, nonchè con i festeggiamenti italiani per la vittoria) si è dovuto assistere purtroppo a degli scivoloni fenomenali per i quali si pagheranno forse alcune conseguenze.
Ma guardiamo più nel dettaglio l'architettura del volume.
"Dalla Pandemia alla Pangioia" nasce da un'idea di Ina Modica, giornalista siciliana e presidentessa dell'AssociazioneDonnaAttiva. Curatore del volume è stato Giuseppe Gangemi, mentre Teresa Di Fresco , Giada Adelfio e Cristina Guccione hanno fatto parte del Coordinamento Editoriale che ha tirato lefilaper mettere insieme i molteplici contributi indiiduali.
Il volume è suddiviso in tre parti. La prima è titolata "Il racconto della pandemia tra crisi e resilienza: professionisti e punti di vista a confronto", contenente il contributo di 13 professionisti siciliani, uomini e donne. La seconda, con il titolo "Testimonianze, esperienze e vissute al tempo della pandemia: l'Associazione 'DonnaAttiva' e le sue socie" dà voce appunto alle socie di DonnaAttiva, tutte professioniste impegnate in diversi ambiti lavorativi e imprenditoriali. E si tratta di ben 25 voci diverse. La terza sezione, infine, con il titolo "Le interviste ai protagonisti: le voci del mondo della cultura, del giornalismo e delle professioni" lascia la parola  in forma di intervista (e l'intervistatore è ogni volta differente) ad alcuni professionisti/e del panorama siciliano.
Ad eccezione che per quest'ultime che sono più ampie e discorsive, i contributi che costituiscono le prime due sezioni sono relativamente brevi (omogenei sotto questo punto di vista), democratici si potrebbe dire, nel senso che nessuno - finanche il curatore - ha voluto per seè uno spazio maggiore di quello che era concesso agli altri co-estensori, e si leggono velocemente: è chiaro che, come succede nell'approccio ai volumi collettanei, l'attenzione del singolo lettore nell'affrontare la lettura dei diversi contributi potrà essere maggiormente calamitata dalle titolazioni dei singoli capitoli oppure dal fatto di  conoscerne personalmente l'autore.
E, quindi, sotto questo profilo, si tratta certamente di un volume da sfogliare e da leggere, anche a saltare, entrando nel testo qua e là, motivati da un'improvvisa curiosità e/o dal desiderio di approfondimento.
Come succede in un coro, le singole voci si potenziano a vicenda e, pur nascendo da una traccia comune, si offrono ciascuna con la propria cifra individuale e fortemente caratterizzata.  E ancora - come succede in un coro - dei singoli contributi, delle riflessioni dei singoli, si perde poi l'individualità, poichè le singole voci si amalgamano in qualcosa che è molto più della semplice sommatoria delle singole parti che la compongono.
Quindi, per concludere, accogliamo con ottimismo il wishful thinking del titolo del volume e, usando la frase che chiude il contributo di  Giulia Noto, docente,  "Facciamo sì, tutti insieme, che alla pandemia possa seguire una 'Pangioia'!" (p.33), tenendo conto che le narrazioni possono avere la grossa responsabilità di innescare dei circuiti virtuosi nelllo scrivere gli eventi che verranno, ma anche di influenzarli negativamente e,dunque qualsiasi tipo di narrativa non è maii neutrale, ma assume su di sèil peso di una grande responsabilità morale. Si veda, al riguardo il brillante esempio del volume 1947 di Elisabeth Åsbrink (Iperborea, 2018) che mostra come - tra gli anni del dopoguerra fu proprio il 1947 un anno cruciale per lo sviluppo (e la rinascita dalle macerie della seconda guerra mondiale) delle singole nazioni e del mondo e che, nel corso di quei mesi, alcune narrative - piuttosto che altre - furono deliberatamente preferite per spingere il mondo in una direzione piuttosto che in un'altra, ritenuta meno gestibile o pericolosa in qualche modo.

 

 

Di seguito la scheda editoriale del volume

 

 

 

AA.VV (a cura di Giuseppe Cangemi), Dalla Pandemia alla Pangioia. Emozioni e sensazioni raccontano i duri mesi del Coronavirus, Ex Libris Edizioni (Collana Lo Zibaldone), 2021
(dal risguardo di copertina) Composto durante l'esperienza del lockdown, in contrasto alla prima ondata dell'emergenza da Coronavirus, questo libro racconta, con coraggio ed ottimismo, le esperienze di vita dei protagonisti delle varie testimonianze che compongono questa raccolta, in un percorso suddiviso in tre sezioni che accompagnano il lettore attraverso diversi punti di vista e chiavi di lettura dell'anno trascorso in piena emergenza. Dietro la scrittura di tali testimonianze si coglie la volontà da parte di tutte le voci dei protagonisti di voler lasciare una testimonianza del duro momento storico attraversato, in Italia e non solo, con la consapevolezza che la riflessione sui momenti difficili è storicamente foriera di riflessioni capaci di farci vedere il mondo che ci circonda con nuovi occhi carichi dei duri momenti vissuti ma pieni di speranza. La raccolta, promossa dall'Associazione DonnAttiva, rappresenta un prezioso contributo alla memoria storica del tempo vissuto capace di travalicare i confini del nostro presente, proiettandoci nel futuro attraverso le voci dei protagonisti che hanno animato con le loro testimonianze questa preziosa eredità.

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4 giugno 2021 5 04 /06 /giugno /2021 09:39
Marcello Benfante, Cinopolis, Mobydick, 2006

Notevole e visionario è Cinopolis (Mobydick, I Libri dello Zelig, 2006) scritto da Marcello Benfante, un apologo ambientato in una Palermo fatiscente e in totale degrado. Un eterogeneo manipolo di sopravvissuti si trova a doversi confrontare con un rivolgimento inatteso, quasi epocale, tanto più inquietante quanto più è misterioso nella sua origine. La narrazione ci conduce dentro una sorta di "mondo zombie", in cui per motivi oscuri, fondamentalmente inesplicati, torme di cani inselvatichiti hanno preso il sopravvento sugli uomini e li sbranano non appena escono dal riparo delle case.
Prendendo spunto dalle scorribande dei cani fuori ogni controllo, ecco però che prende il sopravvento una fazione di uomini-cane altrettanto feroci e portatori di un'istanza di controllo dittatoriale. Costoro sono del pari crudeli e violenti nei confronti dei cani inselvatichiti e degli uomini sopravvissuti che vengono rinchiusi in campi di detenzione, che tanto assomigliano a Campi di concentramento nazisti.
Cinopolis è un racconto allegorico molto efficace ed intenso che mostra come in tempi di crisi (e la pandemia che, nelle sue code, stiamo ancora vivendo, ne è un paradigma) alcuni - cinicamente - possano prendere il potere e dar vita ad un governo totalitario, generando un Behemoth o un Leviatano che divora tutto e tutti; e che tutto piega alle sue mostruose esigenze.
Ma anche è una riflessione su una Palermo fatiscente e degradata: la parte più fascinosa è la descrizione dei vicoli e delle case vecchie del mucleo più antico della città abbandonata dalle persone ed invasa dai cani che, almeno temporaneamente, la fanno da padroni.
La rappresentazione di tutto ciò è, nel racconto di Benfante, profondamente venata di pessimismo, anche se, nelle pagine finali, si intravede la speranza che i sopravvissuti alla violenza e alla dittatura possano percorrere un'esile via di fuga, che rimanda al "Buco della salvezza" di risorgimentale memoria, attraverso cui uomini di fede e puri di cuore possano salvarsi per dar vita ad un mondo che sia di nuovo equo e giusto e in cui cani e uomini possano vivere in pace.
Ma non si può avere di ciò alcuna certezza, sembra dirci l'autore, poichè ogni empito di rinnovamento p destinato a confrontarsi con forze oscure capaci di vanificarlo.
Ho comprato questo libro poco dopo la sua uscita nel 2006, ma mi sono ritrovato a leggerlo solo in questi giorni, per constatare che nel contesto contemporaneo - cupo anziché no - esso sia ancora straordinariamente attuale.
In più la prosa di Benfante, ricca ed intensamente descrittiva, è assolutamente godibile.

(risguardo di copertina) In una Palermo metà fantastica e metà reale, mai nominata eppure facilmente riconoscibile, Alfonso Marrano - detto Fofò -  vede avverarsi un'antica paura: la sua casa, il suo desolato e fatiscente quartiere, l'intera città sono messi sotto assedio da una moltitudine di cani sollevati in una sorta di rivolta spartachista. Guidati da un enorme mastino nero, i cani appaiono agli occhi esterefatti di Fofò come una ciurmaglia di pirati storpi e guerci, per rivelarsi invece un esercito compatto, forse perfino una nuova razza che ha subito una mutazione genetica capace di renderla più simile all'uomo, di cui ha mutuato il peggio.
Insieme a due bambini, a una coppia di di giovani sposi, a un anziano professore che proprio sui cani sta scrivendo un trattato, a un pittore cieco e al suo pastore tedesco, Fofò cerca di sfuggire all'accerchiamento. Ma nel contempo la città è preda d'altri rabbiosi e ringhianti branchi: "Cani potenti, coi soldi, i fucili, i manganelli. Con nuovi pulpiti e nuove pire".

Marcello Benfante

Un apologo visionario sulla paura e sulle dittature che della paura si alimentano. Il racconto serrato di una fuga dal male che assume, a volte con toni grotteschi e ironici, modalità narrative rocambolesche desunte dal romanzo d'appendice - ma anche una riflessione sull'ambiguità del potere, del linguaggio, dell'arte tutta. Dietro la rivolta dei cani si profila in controluce la storia sempre uguale di tante rivoluzioni popolari e di altrettanti fallimenti. La storia di una Sicilia - ancora una volta metafora di una condizione universale -eternamente tradita dalle proprie speranze di riscatto.
L'Autore. Marcello Benfante (Palermo, 1955) insegna e svolge attività giornalistica. Per Mobydick ha pubblicato nel 2006 il romanzo Cinopolis. Scrive sulle pagine palermitane del quotidiano “la Repubblica” come critico letterario e opinionista, e collabora alla rivista “Lo Straniero”. Ha curato, sempre per Mobydick, Racconti irriverenti di R.L. Stevenson.

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1 giugno 2021 2 01 /06 /giugno /2021 16:36
Il Mandala di Sherlock Holmes

Il Mandala di Sherlock Holmes (nella traduzione di Grazia Maria Griffini, Instar Libri, 2002) di Jamyang Norbu, attivista politico per l'indipendenza del Tibet dal giogo cinese e scrittore, è stata per me una bella lettura, centellinata con calma.
Un'avventura holmesiana non del tutto Non del tutto aderente al canone holmesiano, ma comunque un'apocrifo, pienamente nello spirito del genio dell'investigazione inventato da Sir Arthur Conan Doyle e datato al tempo del "grande iato", cioè quell'intervallo vuoto tra la presunta scomparsa di Holmes nelle cascate del Reichenbach, in una lotta all'ultimo sangue con l'irriducibile nemico, il professor Moriarty. e la sua ricomparsa nel mondo dei vivi a distanza di circa due anni, con una nuova serie di investigazioni.

Qui manca tuttavia il suo comprimario di sempre Watson (ovverossia il narratore) che viene sostituito da tal Mookerjee, spia al servizio del governo coloniale inglese, il cui manoscritto che riferisce di questa avventura tibetana viene fortunosamente ritrovato molti anni anni dopo dallo stesso autore che appunto, proprio per questo motivo, si firma come semplice "curatore" dell'opera.
Il romanzo è, tuttavia, fuori dal canone holmesiano ortodosso, perchè vengono messe in gioco forze dell'occulto e paranormarli sino alla rutilante conclusione  ed quindi fuori dal consueto schema dell'indagine deduttiva (o anche - come hanno affermato alcuni moderni esegeti holmesiani - abduttiva).
E' un romanzo intelligente, scritto con garbo, e piacevole non solo per i risvolti investigativi e per il plot che tende alla risoluzione di un mistero per salvare il Dalai Lama in carica da un complotto gigantesco (dietro le cui trame si intravede una sopraffina mente criminale), ma anche perchè è l'occasione per raccontare di un viaggio avventuroso attraverso l'Himalaya sino a Lhasa, nel cuore del Tibet più profondo (alla fine del XIX secolo).
Nello stesso tempo l'autore - che è di origini tibetane - coglie l'occasione per raccontarci un po' di storia relativamente alle trame della Cina nei confronti del Tibet, che videro i loro più drammatici risvolti nella metà del XX secolo, esitate nellìesilio del Dalai Lama e della maggior parte dei monaci tibetani in una vera e propria diaspora nel mondo.
L'autore al termine del volume specifica anche alcune sue fonti e testi che lo hanno ispirato. Un posto di rilievo va - per sua specifica ammissione - al famoso "Kim" di Rudyard Kipling che, in forma di romanzo, racconta del "Grande Gioco", ovvero della contesa tra Impero Britannico e Grande Russia nell'acquisire il controllo geopolitico di questa parte del mondo, ma anche di molti altri racconti brevi dello stesso Kipling, in cui si affaccia con prepotenza l'elemento sovrannaturale. E, dall'altro lato, rivela la sua passione e la sua profonda conoscenza dell'intero corpus holmesiano, che ha avuto modo di dimostrare nel corso di un approfondito esame, prima di ottenere l'affiliazione all'esclusiva associazione letteraria "The Irregulars of Baker Street".
Pubblicato per la prima volta in traduzione, meritoriamente da Instar Libri, il romanzo è stato riedito nel 2021, nella collana dei Gialli Mondadori appositamente dedicata agli apocrifi homesiani. La comparsa nelle edicole di questa nuova edizione è stata per me l'occasione di riesumare dalla mia personale il volume di Instar Libri che ancora attendeva la mia attenzione, un volume peraltro dotato di una splendida veste editoriale.

La nuova edizione nei Gialli Monddori di "Il Mandala di Sherlock Holmes"

(nota al testo) Al porto di Bombay sbarca da un piroscafo un passeggero che nessuno si aspetterebbe di vedere in una remota colonia britannica. Non solo per il fatto che costui esercita abitualmente la sua professione nel cuore dell'Impero, ma soprattutto perché, almeno ufficialmente, non risulta appartenere più al mondo dei vivi, essendo scomparso nel gorgo di una cascata svizzera insieme all'arcinemico professor Moriarty. Eppure, sotto la falsa identità di un norvegese di nome Sigerson, viaggia in incognito proprio il "defunto" Sherlock Holmes. Il quale, appena messo piede a terra, sfugge per un soffio a un tentato omicidio, il primo di una serie di accadimenti che renderanno alquanto movimentata la sua trasferta agli antipodi. Ma le prodigiose doti investigative del segugio di Baker Street restano tali anche lontano dalle nebbie londinesi e avranno occasione di dispiegarsi al massimo grado dall'India al Tibet, fino alla città di Lhasa e oltre. Là dove, incastonato nell'enigmatico disegno di un mandala, si cela il segreto di un regno leggendario.


(David Frati, lievemente modificato) dallo stesso Jamyang Norbu, in visita ai monaci di un certo monastero tibetano in esilio, viene ritrovata una scatola di latta arrugginita contenente un plico sigillato (assieme ad una pipa consumata, il segno distintivo di Sherlock Holmes). Si tratta del resoconto scritto da Mookerjee, una spia indiana per conto del governo coloniale inglese, dei propri viaggi in Tibet in compagnia di Sherlock Holmes. L'investigatore, creduto morto in Svizzera, dove era precipitato nel baratro delle Cascate di Reichenbach, lottando con il suo nemico giurato il professor Moriarty, deve ora affrontare la minaccia di orribili delitti e intrighi politici, confrontandosi con un altrettanto redivivo Moriarty.
Nel 1891, i fans di tutto il mondo appresero inorriditi dal racconto "L'ultima avventura" (The final Problem) di come Sherlock Holmes ed il suo arcinemico James Moriarty fossero morti precipitando dalle cascate di Reichenbach, in Svizzera. Sir Arthur Conan Doyle, notoriamente ansioso di liberarsi del suo ingombrante personaggio (con un mix di comprensibile ambizione letteraria e di antipatica ingratitudine), pensava di farla franca così, ma fu travolto da uno tsunami di vibranti proteste, tanto che dopo qualche anno di stoica resistenza fu costretto a capitolare e ‘resuscitò’ Sherlock Holmes che, nel racconto, "La casa vuota" spiega di aver viaggiato per due anni in Tibet sotto le mentite spoglie di un norvegese, tal Sigerson. Ecco le premesse dalle quali parte Jamyang Norbu: documentare il viaggio di Holmes in Tibet durante il grande iato tra la sua scomparsa ed il suo ritorno. Intrigante la scelta del narratore, Hurree Chunder Mookerjee, prelevato direttamente dalle pagine del classico di Rudyard Kipling, Kim: l’assenza virtuale di Watson dalla vicenda e dalla narrazione dona al libro una freschezza e un senso di novità probabilmente poco apprezzati dai puristi del Canone, ma tutto sommato benvenuti. La struttura canonica classica dei racconti di Arthur Conan Doyle e dei suoi apocrifi viene volutamente fatta saltare: Norbu rimpinza il lettore infarcendo le sue pagine di omicidi rituali, esoterismo, cospirazioni cinesi, digressioni botaniche ed archeologiche, Carl Jung, UFO, e addirittura nel finale si concede il ritorno di un Moriarty dotato di poteri occulti.
L’irruzione del fantastico nell’universo di Sherlock Holmes rappresenta l’ennesima significativa ‘libertà’ presasi da Norbu, che approfitta anche dell’ambientazione delle vicende per lanciare chiari messaggi di propaganda politica anti-cinese.
Il risultato? Per chi ama la perpetuazione di uno Sherlock Holmes immutabile nella forma e nei contenuti, un romanzo spiazzante e forse presuntuoso, per gli altri un piacevole romanzo d’avventura con qualche finezza e il (grave) difetto di una scarsa tensione narrativa. Assolutamente godibile per i sensi - come sempre accade per i prodotti Instar - la veste grafica.

Il mandala di Sherlock Holmes. Un'avventura tibetana di Sherlock Holmes
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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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