In una vecchia struttura, adibita a Centro di Salute Mentale. Lunghi corridoi su cui si aprono stanze di dimensioni dverse.
E' tutto fatiscente e c'è un grande disordine: mucchi di derrate alimentari scadute e imputridite, vecchi indumenti impilati scompostamente, rottami di vecchi arredi mai rimossi.
C'è un grande ambiente con una piscina piena di acqua non proprio pulita e le pareti rivestiva di una crescita di limo verdastro e crescite strane sulla superficie immota.
Ti aspetteresti di vedere spuntare all'improvviso un coccodrillo con le fauci spalancate pronto a ghermirti.
Non mi ci tufferei mai per una una nuotata salutare.
Malgradociò, la struttura è ancora pienamente funzionante.
Non sono semplicemente in visita, ma sono lì per affrontare un colloquio psichiatrico in compagnia di uno psicologo e di un'assistente sociale.
E' un ritorno, in verità.
Io sono mancato per molto tempo e sono sorpreso per il modo in cui le cose si sono rapidamente deteriorate durante la mia assenza.
Sembra che il terzo principio della termodinamica abbia preso il sopravvimento, portando ad un rapido decadimento entropico qualsiasi forma di organizzazione e l'intera struttura.
Mi mostrano la stanza dove dovrebbe svolgersi il colloquio.
E' semplicemente orribile, più che uno studio di consultazione che dovrebbe ispirare un'atmosfera serena e rilassata e una dimensione di ordine e di armonia mentale, al tempo stesso sufficientemente neutrale per consentire al paziente di non sentirsi assalito da input frammentati e schizofrenogenici, appare come la bottega di un rigattiere o di un banco di pegni affollata degli oggetti più disparati o forse anche una stalla.
A quest'ultima impressione concorre l'aria stantia e pesante.
Ho un moto di ripulsa al pensiero di dovere svolgere un'attività professionale in un simile antro.
E cerco di negoziare un a situazione di maggiore ordine e , se possibile, ottenere un ambiente decente.
Ma le mie richieste si scontrano davanti ad un muro di indifferenze e suscitano delle reazioni di scherno da parte degli altri.
Cosa voglio del resto? - sembrano volermi dire con i loro sguardi ironici -dopo tanto tempo arrivi e vorresti imporre il tuo ordine? Le cose sono cambiate adesso e non sei più tu ad avere la guida di questo posto! Non puoi fare che adattarti!".
Mentre le trattative vanno avanti, senza che peraltro ci possa metttere in un assetto operativo, mi rendo conto con grande imbarazzo di essere senza scarpe e calze.
I miei piedi sono nudi, forse anche un po' sporchini e con le unghie non tagliate di fresco, e mi dà un certo ribrezzo doverli poggiare sul pavimento chiazzato di macchie dubbie e sulla quelle stratificazioni di sporcizia, frutto di anni di incuria.
Mi ritrovo a lottare strenuamente per indossare - senza farlo apparire - un paio di calzini che trovo a portata di mano, pensando che siano i miei, ma - con grande imbarazzo - mi accorgo che non mi appartengono e che facevano parte di un mucchio di indumenti logori buttati in un angolo.
Mi sento disgustato ed infelice.
Vorrei essere altrove e capisco che non c'è più posto per me.
Il mondo che conoscevo è andato avanti o è rimasto indietro.
Mi sono ricordato dei tempi in cui lavoravo come psichiatra e della difficoltà di mantenere nella struttura e nell'organizzazione di lavoro l'ordine e delle regole funzionale. E come - in assenza di interventi correttivi - volti a mantenere l'omeostasi del sistema o una sua evoluzione verso livelli di maggiore complessità organizzativa in modo da poter rispondere a nuove richieste ed esigenze - tutto quello che era stato fatto si disperdeva e si annullava, poiché nessuno metteva un briciolo di iniziativa per supportare struttura ed organizzazione.
Tutto all'insegna del principio della deresponsabilizzazione individuale e, talvolta, anche dell'ostruzionismo o, a volte persino, di una larvata forma di protesta.
Il lavoro era immane e assumeva le sembianze della proverbiale fatica di Sisifo.
Londra, il 17 novembre 2014