Tutti mi chiedono perchè io indulga a fotografare animali morti in cui mi imbatto sul ciglio della strada, oppure scene di degrado metropolitano, come ad esempio un mucchio di cantalupi prossimi alla putrefazione.
Ci sono alcuni che si sentono disturbati dalla crudezza di queste immagini, forse.
Altri le considerano antiestetiche.
Altri ancora si sentono offesi ed oltraggiati.
Ma perchè?
Si tratta di scene che fanno parte del nostro panorama quotidiano, in realtà.
Molti distolgono lo sguardo e fanno finta di non vedere.
Molti desiderano vivere in una condizione di tranquillità dello spirito, in cui la quiete e la normalità quotidiane non siano per nulla disturbate.
Sembrerebbe che la volontà di molti sia orientata a mantenere a tutti i costi un equilibrio perfetto, in cui le immagini della fine siano bandite, per evitare il loro impatto destabilizzante sulle certezze della vita che si vorrebbe fossero per sempre.
I nostri antenati erano abituati alla morte e al morire che facevano parte integrante del vivere.
Per loro la morte era strettamente intersecata con il vivere: e, oltre alle certezze del vivere, c'era costantemente la certezza della morte.
La religiosità e il bisogno di trascendenza sono nate in realtà proprio da questa stretta coabitazione di vita e di morte.
La morte era ominosa ed incombente, ma era - in realtà - un fatto della vita.
Non poteva esserci la vita senza la morte.
In un recente romanzo (opera prima di Giacomo Papi, I primi tornarono a nuoto, pubblicato da Einaudi, 2012) si ipotizza che, per motivi misteriosi (che la Scienza non è capace di spiegare), i morti - tutti i morti - ritornano ad ondate in una progressione geometrica.
I morti risorti sono fisicamente perfetti (anche se hanno l'età cronologica che avevano al momento del decesso), ma i loro tessuti (persino i loro denti) sono giovani e vigorosi. L'unica differenza è che i risorti non possono procreare.
Al crescere del numero dei redivivi, si crea immediatamente una competizione tra i vivi e i risorti: si attiva una vera e propria lotta per uno spazio vitale che si fa sempre più ristretto, visto che i risorti sono centinaia di milioni se non miliardi (considerando i morti di tutte le epoche storiche sin dagli albori dell'Umanità): e, in questa lotta, da parte dei risorti si attiva una feroce persecuzione contro le donne (non solo simbolo della fertilità, ma anche concreta estrinsecazione della capacità di procreare) e dei pargoli da poco nati. Le donne, siano esse incinte o in età fertile, vengono sterminate.
Questo l'incipit del romanzo: «I primi tornarono a nuoto la notte del secondo giorno. A sciami, nelle ore disabitate, entrarono in acqua dai porti addormentati, dai moli senza nome, dalle anonime rive di melma ed erba dimenticate sulla terraferma, e nuotarono lenti in mezzo alla laguna illuminata e oscurata a intermittenza dalla luna e dalle nuvole, uscirono dal mare come granchi o come rane, arrampicandosi sui pali, sulle barche ormeggiate, sulle scale intagliate nella pietra e invasero le isole. Per molte ore nessuno li vide». (Giacomo Papi, I primi tornarono a nuoto, Einaudi, 2012)
Akunin in un suo libro (Le città senza tempo. Storie di cimiteri, Frassinelli, 2006) riflette che, se soltanto si considerano le grandi metropoli (quelle che hanno una storia millenaria, come Roma, Londra o Parigi) sono più i morti che le hanno popolate e che vi sono sepolti che non i vivi che le abitano in atto. E si chiede Akunin se non sarebbe legittimo pensare che queste città debbano appartenere più ai morti che si sono affastellati nel corso dei secoli che non ai vivi che le abitano. C'è da domandarsi se tutti questi morti non sprigionino una qualche forma di energia che si espande a partire dei loro luoghi di sepolutra e se non siano persistenti - presenti ed attive - tracce del loro passaggio.
Morire è una necessità dalla quale non si può eludere in alcun modo e immaginare di procrastinare oltre il lecito (e il naturale) il tempo in cui ci è dato di vivere è semplicemente follia.
Non ha senso favorire la domanda crescente di un maggiore tempo di vita: occorre piuttosto lasciare che ci siano un naturale avvicendamento e un ricambio generazionale, in modo da assicurare un equilibrio tra le vite che si spengono e quelle che cominciano.
Se così non fosse, come prospetta il metafisico romanzo di Papi saremmo velocemente condannati all'estinzione per sovrappolazione. Detto crudamente: diventeremmo troppi per avere di che mangiare e per dividere sempre più magre risorse.
La morte prenderebbe il sopravvento per la mancanza di un naturale avvicendamento.
Indugiare sulle immagini di morte, quando la morte altro non è che un transito da uno stato all'altro, è un modo per ricordarsi dell'impermanenza e della corrruttibilità.
Un'immagine è efficace in tal senso, in quanto estrapola da scenari di vita una possibile rappresentazione della morte e del passaggio da uno stato ad un altro: e questo può aiutare a riflettere e a prendere consapevolezza sul fatto che non vivremo in eterno, che siamo a predestinati a morire.
Questa è una certezza ineludibile, anche se non possediamo la conoscenza del modo e del tempo in cui ciò avverrà.
E non dico, ovviamente, che si debba vivere cupamente, recitando come una litania "Memento mori", come facevano certi monaci di clausura (i Trappisti), votati al silenzio, ma autorizzati a pronunciare incontrando un altro confrate la fatidica frase, scavando così giorno per giorno la fossa che, da morti,li avrebbe accolti. Oppure come icona di riflessione sul tema della morte, possiamo pensare al fiociniere Queequeg che in Moby Dick sale a bordo, portandosi a spalla la bara dentro cui un giorno vorrebbe essere sepolto (dentro la quale si mette anche a dormire) e che, poi, quando il Pequod naufraga, colpito dalla furia assassina ed ominosa del grande Capodoglio bianco diventa il provvidenziale salvagente che porta Ismael in salvo.
Se riflettiamo sugli scenari di morte, saremo un po' più pronti ad accettare la fine quando verrà, ma sempre pensando alla pienezza della vita.
La società odierna, profondamente orientata all'edonismo, è troppo materialista per esprimere una riflessione profonda sulla morte e sul morire o anche un'accettazione consuetudinaria sulla nostra fragilità e sul nostro esssere transeunti.
Se si ha la consapevolezza della morte con la convinzione (tranquillamente accettata) che ogni giorno potrebbe essere l'ultimo, ogni giorno di vita che ci è dato sarà vissuto con pienezza e, quando quel momento fatidico verrà, non dovremo angustiarci perche "...non c'è più tempo", oppure perche "...non abbiamo fatto questo o quell'altro".
Benchè nessno potrà mai dire, in tutta sincerità, di essere pronto per il passaggio dentro una dimensione di ineffabile mistero, volgendo di tanto uno sguardo non terrorizzato ad un'immagine della fine, forse, potremo dire di essere almeno un po' più pronti.
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