Il volume di Peppe Sebaste (Panchine. Come uscire dal mondo senza uscirne, Laterza, 2008), al quale non si può non tributare un dovuto omaggio ogni qualvolta si parla di panchine, ci ha insegnato a gettare uno sguardo non distratto su di esse ed ad imparare ad apprezzare le infinite storie che, su di esse, si possono raccontare e scandagliare i diversi stati della mente che esse facilitano, quando vi si sosta.
Le panchine sono universalmente presenti nei nostri scenari: sono uno dei minimi comuni denominatori degli scenari antropizzati.
Si trovano nelle metropoli e nelle città, nei parchi e lungo i marciapiedi.
In luoghi scontati ed in luoghi incredibilmente belli, in luoghi affollatissimi e in luoghi riposti e solitari.
Non è necessario che ci sia una città perchè ci siano panchine: una panchina può trovarsi anche davanti ad un casolare che sorge in un luogo fuori mano.
Ma cos'è in definitiva una panchina?
Nella sua origine altro non è che una "seduta", più che una sedia: un artificio che consente di star seduti, all'interno di un luogo abititativo o all'esterno.
Soltanto tardivamente la sua foggia (partendo dal suo grado zero che - come posso immaginarmi - è stato un tronco abbattuto), passando da un tavolaccio grossolanamente sbizzato, è arrivata alle panchine come quelle che conosciamo noi, da quelle ottocentesche in legno o in ferro battutto, per giungere a quelle modernissime, fantasiose e spesso ultra-scomode.
Oggi, associamo le panchine a un oggetto irrinunciabile dell'arredo urbano di una città, dove ci si può sedere e sostare "gratuitamente" senza passare dall'obbligo di una consumazione in un bar o in un caffè e dove, nelle città più "liberali" può anche essere consentito levarsi il piacere di una bella e spensierata dormita: anche se è proprio questa "gratuità" oggi a dar fastidio, perchè secondo il pensiero di amministratori ottusi e occhiuti rappresenta un richiamo irresistibile per vagabondi, nullafacenti, homeless ed è allora che si tolgono le panchine per effetto di una frenesia perbenista e della necessità di un ottuso controllo sui comportamenti altrui (soprattutto quando la loro cifra è data da spensieratezza e gioiosità) oppure le si rendono volutamente scomode.
Il libro di Michael Jakob di prossima uscita per i tipi di Einaudi (Sulla Panchina) ci guida in un affascinante viaggio attraverso i giardini e gli scenari urbani di tutte le epoche e di tutti i luoghi dell'Occidente, utilizzando come vertice di osservazione proprio la Panchina.
In fondo, attraverso le panchine si può scrivere una particolarissima storia dell'Occidente e non solo.
(Dal sito Einaudi) Con Sulla panchina. Percorsi nello sguardo nei giardini e nell'arte, Michael Jakob – docente di Storia e teoria del paesaggio (presso la Scuola di Ingegneria di Ginevra-Lullier e il Politecnico di Losanna) e cattedratico di Lettere comparate all’Università di Grenoble - ci guida in un viaggio sorprendente attraverso i giardini e le epoche, dalla Toscana rinascimentale alla Francia del Settecento, dalla Russia degli anni Venti ai paesaggi industriali della contemporaneità, provando a ricostruire le molteplici vite di un'entità desueta: dalle panchine reali, come le «panche di via» di Firenze o Pienza e quelle stravaganti di Bomarzo, a quelle letterarie, artistiche e cinematografiche. Un saggio di cultura visuale colto e raffinato, accessibile - per il fascino dei temi, l'originalità dell'impostazione, l'eleganza della scrittura e la ricchezza dell'apparato iconografico - anche al lettore curioso.
Quando ci sediamo su una panchina in cerca di un momento di riposo o per godere della vista di un paesaggio, quasi mai ci rendiamo conto di quanto questo oggetto, in apparenza banale e insignificante, funzioni come una vera e propria macchina visiva, «intelligente e visionaria», in grado di farci comprendere la realtà che abitiamo. Obbedendo a una semplice quanto efficace strategia visiva, la panchina, mentre apparta dal flusso del mondo, crea situazioni e paesaggi particolari, insegna, suscita, cita. Orienta il nostro sguardo e modella il nostro stato d'animo.
Michael Jakob ci guida in un viaggio sorprendente attraverso i giardini e le epoche, dalla Toscana rinascimentale alla Francia del Settecento, dalla Russia degli anni Venti ai paesaggi industriali della contemporaneità, provando a ricostruire le molteplici vite di un'entità desueta: dalle panchine reali, come le «panche di via» di Firenze o Pienza e quelle stravaganti di Bomarzo, a quelle letterarie (Rousseau, Stifter, Sartre), artistiche (Manet, Monet, Van Gogh, Liebermann) o cinematografiche (Vertov, Antonioni). Un saggio di cultura visuale colto e raffinato, accessibile - per il fascino dei temi, l'originalità dell'impostazione, l'eleganza della scrittura e la ricchezza dell'apparato iconografico - anche al lettore curioso.
Michael Jakob insegna storia e teoria del paesaggio presso la Scuola di Ingegneria di Ginevra-Lullier e al Politecnico di Losanna (EPFL) ed è cattedratico di Lettere Comparate all'Università di Grenoble. È fondatore e direttore della rivista internazionale «Compar(a)ison», nonché della collana «di monte in monte» (Edizioni Tararà). Dirige presso l'editore Infolio (Losanna) la collana «Paysages». Ha pubblicato, presso Einaudi, Sulla panchina. Percorsi dello sguardo nei giardini e nell'arte (2014)
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Per approfondire, si rimanda al testo di Loris Patuelli, già pubblicato sul web nel sito "Alfonsine" (dedicato alla cittadina di Alfonsine) , con il titolo "Le Panchine di Alfonsine"
La panchina è l’ultimo simbolo di un qualcosa che non si compra
È nell’indifferenza generale che vanno sempre a finire le storie troppo belle
(Loris Patuelli) Bisognerebbe scrivere la storia delle panchine, bisognerebbe farlo subito, magari alla maniera dei nomadi che non conoscono la storia ma soltanto la geografia. Tanti auguri allora al ricordo che risale il tempo e un saluto anche all’oblio che ne segue il corso. La vita gioiosa e avventurosa delle panchine alfonsinesi incomincia con questa domanda: 'Ma negli anni cinquanta c’erano già le panchine ad Alfonsine?' Confesso la mia ignoranza: non lo so. Non lo so, ma immagino che i nostri genitori fossero troppo indaffarati con la ricostruzione postbellica e che non avessero troppo tempo per oziare sulle panchine. Negli anni sessanta c’erano di sicuro. Anzi, se ben ricordo, Corso Matteotti era tutto un viavai di biciclette, motorini ed utilitarie fiammeggianti come draghi.
Le panchine erano una specie di tribuna d’onore o, per meglio dire, l’osservatorio astronomico perfetto per lo studio e la contemplazione del mondo. Sulle panchine c’era di tutto. C’erano quelli che volevano cambiare il mondo e c’erano quelli che in questo mondo volevano fare i signori. C’erano quelli che sognavano di lavorare alla Marini e c’erano quelli che studiavano da dottore, da tornitore o da impiegato comunale. Sulle panchine c’era di tutto, ma tutto rigorosamente al maschile. Di femmine neanche l’ombra. Le ragazze stavano sull’uscio di casa, ed era lì che bisognava andare per filare. Le ragazze potevano al massimo pedalare in gruppo sui viali, ma sedersi sulle panchine proprio no, neanche per mangiare un innocente gelatino. Il perbenismo cattolico e il perbenismo comunista erano allora davvero implacabili. Non era facile ribellarsi a questo andazzo, e farlo voleva dire provocare una lacerazione nel tessuto della comunità. Questo negli anni sessanta, ma non è poi che negli anni settanta le cose siano cambiate più di tanto. I motorini passavano e ripassavano davanti alle panchine, le “cinquecento” e le “giuliette” facevano altrettanto. E tutti sgassavano e sgassavano e tutto questo sgassare era la cosa più dolce e naturale di questo mondo. Su argomenti del genere c’è poco da scherzare. Anzi, per essere più precisi, credo proprio che commetterebbe sacrilegio chi osasse definire rumore il rombo che esce dai motori. Forse per uno straniero questa cosa può risultare un pochino bizzarra, ma per un romagnolo il rombo del motore è la sola, unica, autentica ed inimitabile voce di Dio. Nel dialetto romagnolo mutor e Dio sono sinonimi. Ragion per cui, caro lettore, chi sgasa la sua vetturetta non è un maleducato, ma soltanto un bravo mistico intento a pregare Gesù, la Madonna e tutti i santi del paradiso.
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