Mia mamma che aveva vissuto le ristrettezze delle guerra e che si era trovata ad approviggionarsi con la carta annonaria, voleva avere a casa abbondanti scorte di tutti i generi essenziali.
Il sale, lo zucchero, la pasta, lo scatolame non dovevano mai mancare.
Le scorte andavano periodicamente aggiornate e rimpolpate.
Ma lo stesso atteggiamento previdente lo adottava per qualsiasi cosa: lo spagno degli incarti, le carte degli involti, i vassoi di cartone, i ritagli di stoffa, i barattoli di vetro, le bottiglie vuote, tappi di sughero, sacchetti di carta e cartone, per citare le cose più comuni, ma ce n'erano anche di più speciose: tutto doveva essere conservato per possibili usi futuri.
Altri oggetti dovevano essere ricilcati ad altri usi sino alla loro totale consuzione: così era per gli spazzolini da denti consumati, ancora buoni per fare le pulizie, oppure per i vecchi bastoni di scopa.
Il principio di base era che nulla doveva essere mai buttato.
"Non si sa mai", soleva dire.
Ed anche: "Sarebbe un peccato buttarlo via".
Io, inevitabilmente, ho preso le stesse abitudini.
Per anni ho conservato di tutto, pensando che - esattamente come lei mi aveva inculcato - che ogni cosa potesse tornare utile un giorno.
Solo che a forza di conservare, ti dimentichi di ciò che hai conservato.
Una volta, da un rivenditore di strada comprai una "balla" di sale. Ciò accadde più di vent'anni fa. E ancora oggi sto usando di quel sale.
Recentemente, ho fatto un repulisti e, avendo la necessità di trovare nuovi spazi, per riporre le cose, ho eliminato un bel di queste cose "eccedenti", accumulate nel corso degli anni.
Ora, mi sento più leggero.
Ma nello stempo, quando mi avanza un sacchetto di carta dalla libreria o dall'aver fatto shopping o una scatole per scarpe vuota, un barattolo di vetro o la bottiglia che conteneva una birra, il mio primo impulso sarebbe di conservare, conservare, conservare
Devo forzare me stesso per "eliminare".
Ai tempi di mia madre (quando era giovane, durante la guerra e nell'immediato dopoguerra), conservare avere un senso, perchè alcuni "generi" e alcuni materiali erano rari e, quindi, la loro conservazioni ai fini di un loro riciclaggio funzionale, aveva un senso.
Adesso, non più. Non c'è alcun senso, anche se forse - perdurando la crisi - torneremo a queste forme di parsimonia.
Eppure, quelle meticolose procedure di conservazione possiedevano un loro fascino. Non posso non pensare al rito di quando c'era da aprire la confezione dei dolci che, la domenica, non mancavano mai sulla nostra tavola.
Prima di togliere l'incarto, occorreva scioglere meticolosamente i nodi dello spago (mai tagliarli! Sarebbe stata un'eresia) e avvolgere con cura lo spago per poi metterlo in un apposita scatola di latta che faceva da deposito degli spaghi e delle cordelle (con cui, allora, si facevano i "chiacchi" per legare i panni sul filo per stendere: un succedaneo povero - ed economico - delle attuali mollette di plastica).
In ogni caso queste procedure - il rito - dilazionando i tempi, incrementavano ulteriormente il piacere di quando finalmente aperto il pacchetto e disvelato il suo contenuto ci saremmo potuti lanciare all'arrembaggio dei dolci (...ma sempre con parsimonia: uno a testa, al massimo, oppure due mezzi). Gli altri a cena oppure il giorno dopo per colazione o per merenda a scuola.
E' davvero straordinario come noi cresciamo ad immagine e somiglianza dei nostri giorni, plasmati da loro o come un positivo oppure, in taluni casi come un negativo. Ed è altrettanto straordinario come una serie di piccole abitudini acquisite negli anni dell'infanzia ce le portiamo appresso come parte di un nostro lessico familiare - in senso lato - prezioso ed unico.