Le Alpi nel mare. Un altro tassello postumo dell'opera di Sebald, instancabile vagabondo della mente
Winfried George Sebald, saggista e critico purtroppo, è morto anzitempo in un incidente d’auto: purtroppo, perché voci autorevoli ritenevano che potesse essere candidato ad un Nobel per la letteratura. Dopo quegli scritti che furono editi lui ancora in vita, altri adesso vengono pubblicati postumi, come Campo Santo, ancora non edito in Italia, di cui Adelphi ha offerto di recente un'anticipazione nella collana "Biblioteca minima", con il libretto “Le Alpi nel mare” (2011): una serie di annotazioni d'un viaggio compiuto da Sebald nella montuosa Corsica, naturalmente a piedi, sembrerebbe di poter supporre, tra i centri piu' grossi (come Ajaccio, capoluogo) e cittadine o villaggi sperduti tra i monti impervi. Vissuto in Inghilterra dal 1970, dove era docente di Letteratura Tedesca Contemporanea presso la University of East Anglia di Norwich, Sebald è stato sempre un grande "vagabondo" dell'anima. I suoi libri sono parte d'un testo unico che si va snodando senza soste (forse l’unico che assume una sua autonomia è Austerlitz, anche se poi lo stile narrativo in cui la soggettività dell’Autore è sempre presente nella trama di ricordi e di libere associazioni.
Sebald cammina, si muove in giro, osserva instancabilmente e raccoglie frammenti della realtà che lo circonda, la documenta con delle foto rigorosamente in B&N, che poi riporta nel suo testo e che sembrano sempre sbiadite e come d'altri tempi, raccoglie documenti suppletivi (quasi ci fosse in lui l'ansia di potere archiviare con dovizie di prove i suoi passaggi esteriori ed interiori) e, mentre così procede, esplora se stesso, i suoi ricordi, le sue conoscenze e la sua cultura con delle escursioni vertiginose negli ambiti piu’ imprevisti che, a volte, lasciano il lettore terribilmente straniato.
La cifra fondamentale della sua scrittura (e delle sue meditazioni) è un impasto di solitudine, di malinconia e di consuetudine con la morte e con il declino, senza alcuna pretesa di convertire il lettore alla sua visione del mondo, ma soltanto il desiderio di comunicagliela.
Intimiste e dolenti, le sue prose diaristiche catturano il lettore, poiché lo riconducono sempre all'universalità della condizione umana.
"Le Alpi nel mare" contiene quattro brevi scritti che, a mio avviso, come potrà concordare chi conosce abbastanza a fondo le sue opere, rappresentano quattro preziosi vertici della sua poetica e della sua visione del mondo.
Magistrale, per comprendere il suo approccio e di toccarlo vividamente con mano, il capitoletto “Campo santo” in cui, partendo dalla dolente visita dell'antico cimitero del villaggio còrso di Piana con le sue croci di ferro e le sue lapidi incise e alcune spezzate, Sebald ci parla delle consuetudini funerarie vigenti nel luogo e delle superstizioni relative e, ovviamente, ci trasmette i suoi pensieri sulla morte e sul declino, ma anche sul rigoglio della vita che, malgrado tutto, torna a riprendere possesso della morte. E, anche quando, Sebald ci parla con malinconia di cose morte ed da tempo andate, deteriorate dal trascorrere del tempo, le fa rivivere, rendendole tremendamente vive e presenti con la precisione quasi fotografica delle sue pennellate.
“Ma nel camposanto di Piana, in mezzo alle esili inflorescenze, agli steli e alle spighe, di tanto in tanto uno dei cari estinti s’affacciava da quei ritratti ovali color seppia incorniciati da un sottile bordo dorato, che nei paesi latini era uso apporre sulle tombe sino agli Sessanta [ndr - Ma, durata anche molto oltre qui da noi in Italia, anzi tuttora consuetudine tuttora piuttosto viva]: un ussaro biondo in uniforme con il colletto alto, una ragazza morta il giorno del suo diciannovesimo compleanno, il viso già quasi cancellato dalla luce e dalla pioggia, un uomo dalle spalle incassate con un gran nodo alla cravatta, funzionario coloniale a Orano fino al 1958, con in testa il chepì di traverso, che era tornato a casa gravemente ferito nell’inutile difesa delle postazioni fortificate nella giungla attorno a Dien Bien Phu”(pp. 33-34)