La luce che filtra tra gli alberi è un’immagine molto romantica, ma è anche simbolica. In Giappone questo fenomeno ha una parola tutta sua, ovvero komorebi e non è solo un fenomeno naturale, ma l’invito a cogliere la luce anche nei periodi bui della vita.
In italiano, ma anche in inglese, non esiste una parola che descriva la luce che filtra attraverso gli alberi. In Giappone, invece, questo fenomeno è detto komorebi ed una parola molto specifica, composta dai caratteri kanji per albero (木), splendore (漏れ) e sole (日). Il contrasto tra la luce del sole e l'ombra, e il modo in cui le due danzano, è uno spettacolo che da sempre gli artisti cercano di catturare: basta guardare il Sentiero nel giardino e il Bosco di ulivi nel giardino Moreno, entrambe meraviglie di Claude Monet.
Le battute d’arresto sono momenti della vita, che non devono però bloccare l’esistenza umana.
La filosofia occidentale sostiene che esista la luce alla fine del tunnel. Con un contrasto molto interessante, Komorebi ci ricorda di trovare quei sottili raggi di luce nel mezzo, mentre attraversiamo il tunnel buio. Di non aspettare o procrastinare. Ma come possiamo vedere la luce, o komorebi, quando c'è molta oscurità? É fondamentale rimanere attivi, gestire lo stress e contattare amici, familiari e professionisti. L’interazione tra luce e oscurità può insegnarci molto sul benessere mentale, perché non è necessario essere nel giardino di Giverny di Monet per vedere i komorebi. Basta solo un albero e un po’ di sole tra le nuvole.
É fondamentale quindi prendersi il tempo per osservare ciò che di bello c’è nella vita, intorno a noi. É un esercizio difficile, talvolta risulta anche faticoso, soprattutto quando si è risucchiati dalla frenesia della vita occidentale, ma è fondamentale per preservare l’equilibrio mentale.
Tuttavia, la bellezza del komorebi non è solo superficiale. Quando si parla di luce, inevitabilmente, si fa riferimento all’ombra o all’assenza della luce stessa.
Komorebi riguarda le sensazioni, non solo un fenomeno ottico. Per chi parla giapponese, evoca un'immagine mentale bella, calda e silenziosa di un ambiente naturale piacevole, con i raggi scintillanti del sole che disperdono le ombre proiettate dagli alberi. Ci ricorda quindi di cercare la positività nelle piccole cose che possono aiutare a dissipare le ombre del dubbio o dell'ansia. In ogni situazione che appare cupa e oscura, ci sono piccoli punti luminosi che possono rendere l’esperienza più tollerabile. Komorebi riguarda il trovare quei piccoli raggi di luce e fermarsi per ricaricarsi, prima di proseguire.
La prima cosa che mi è venuta in mente guardando sin dalle prime battute Perfect Days, il magnifico e minimalista film di Wim Wenders del 2023, è stata la mia esperienza di quando, da militare, frequentai per tre mesi la Scuola Allievi Ufficiali di complemento Medici e Farmacisti. Come allievi ufficiali eravamo assegnati per quei tre mesi ai diversi servizi e a me tocco di essere assegnato per una settimana alla pulizia dei gabinetti della mia camerata, compito che svolsi con meticolosità e attenzione, senza “arronzare”, ma con un qualche disgusto perché noi Italiani eravamo (e continuiamo ad esserlo) degli sporconi.
In quella settimana, io subentravo nella pulizia di latrine e lavabi e pavimento dopo che l'orda era già passata: ricordo che ero soddisfatto del mio lavoro che consisteva nel riportare al nitore originario gli arredi sanitari spesso imbrattati senza alcun ritegno.
Poi la settimana trascorse e rimase dentro di me quell'esperienza di lavoro solitario, poiché uno solo di noi, per una settimana intera, veniva assegnato a quel compito.
Quando fu il loro turno, i miei colleghi se ne lamentarono, mentre io accettai quella consegna con spirito filosofico.
Come è nell'esperienza del rigovernare la cucina, quella - in quei giorni (che ricordo come giorni "perfetti") fu per me un'occasione per riflettere e meditare, attivando anche il day dreaming o lasciando prevalere - come si dice oggi nel linguaggio delle neuroscienze (ma allora non lo sapevo) il DMN cioè quella rete neurale chiamata Default Mode Network.
Il periodo finì e l'esperienza rimase con i suoi insegnamenti, almeno quelli che potei trarne.
L'altra cosa che mi è venuta in mente - ed è strettamente correlata alla prima - è quella di poter essere (o di voler essere) "cacciatore di ombre". Le ombre che possono essere nella realtà in certe configurazioni di luce e di chiaroscuri unici e irripetibili scaturiscono anche dall'interno (in termini di frammenti onirici di sogni lucidi) o di sogni da svegli) e possono rappresentare una sintesi, un'incernieramento tra mondo esterno e interno.
In questo non ho potuto non pensare ad un altro grande film di Wim Wenders (che è “Fino alla fine del mondo”), pure collegato in maniera ben più esplicita al sogno e al sognare, dove si mette in piazza addirittura la possibilità di registrare visualmente i propri sogni con la possibilità dei sognatori di rimmergersi a proprio piacimento nei propri sogni sognati intrisi di struggenti reminiscenze che riportano al tanto desiderato tempo perduto.
Hirayama è un meticoloso pulitore itinerante di latrine pubbliche, ma è anche un lettore assiduo e un sognatore.
Con una sua piccola macchinetta fotografica analogica fotografa anche (ma a me è parso che mai vediamo il nostro Hirayama nell'atto del fotografare) e, settimanalmente, si fa fare le stampe dei suoi scatti per poi selezionarne accuratamente qualcuno o anche uno soltanto (o nessuno del tutto) che poi conserva con altrettanta meticolosità in una cassettina metallica.
Alcuni potrebbero dire che Hirayama viva una vita asfittica e ripetitiva, ma questa è sicuramente una lettura riduttiva di ciò che egli con il suo esserci ci vuole trasmettere (o che il regista vuole dire a noi spettatori raccontando le giornate perfette della sua vita minimalista).
Hirayama è indubbiamente abitudinario. Le sue giornate si scandiscono con una sequenza di gesti semplici e misurati e di consuetudini, tutto funziona come fosse regolato da un metronomo: eppure ci sono piccoli inconvenienti, ci sono degli incontri significativi in alcuni casi e in altri degli incontri mancati. Ci sono piccoli eventi che rappresentano l’improvvisa irruzione della meraviglia (come il gioco improvvisato sulla qualità delle rispettive ombre).
Ma ci sono anche dei cambiamenti come nelle letture che si rinnovano da una settimana all'altra, parrebbe: dal momento che - nel suo giorno di riposo settimanale - Hirayama passa da una libreria dell'usato dove acquista un nuovo libro che attira il suo interesse o suscita la sua curiosità, con brevi scambi di parole unilaterali della libraia che sempre mostra di apprezzare le sue scelte.
Dall'ampiezza delle scaffalature per libri collocate nella stanza in cui dorme - per altri versi spoglia ed essenziale - delle quali abbiamo una visione via via maggiore, si intuisce che Hirayama è uno che ha letto tanti libri e che i suoi perfetti giorni siano stati davvero tanti, immerso in questo lavoro e in questa esistenza di routine che - ciò nondimeno - gli offre scenari interiori sempre nuovi. E sono almeno due i libri identificabili che egli si ritrova a leggere in questo spaccato della sua vita che il registra offre alla nostra osservazione: “Le palme selvagge” di William Faulkner e “Urla d’amore” di Patricia Highsmith, oltre a numerosi riferimenti a “Gli alberi” di Kōda Aya.
E poi c'è la musica: una musica che egli cambia ogni giorno mentre in auto, armato di prodotti di pulizia, secchi e scopettoni, percorre la sua strada per spostarsi da un luogo di lavoro all'altro: una musica che ascolta in musicassette (che anche queste di tanto in tanto acquista, prediligendo scelte musicali rock e pop anni Settanta e Ottanta, o che forse ha acquistato in passato e che riesce a tenere in perfetto stato d’uso) con assoluta dedizione.
Le scelte musicali cambiano ogni giorno, forse in relazione al suo mood. La musica che Hirayama ascolta e che ascoltiamo noi mentre guardiamo il film è una musica "diegetica", dunque, come si dice in linguaggio tecnico, e anche questa è una scelta perfetta.
Ogni giorno Hirayama esce dal suo piccolo alloggio e, come prima cosa, guarda il cielo, sorridendo all'alba incipiente, pronto ad affrontare un nuovo giorno, che sarà uno dei suoi giorni "perfetti".
Ogni giorno, così, può avere la nettezza di una meditazione Zen o può anche essere la rappresentazione altrettanto straordinaria di uno degli assunti della via del Tao.
Si intuisce che Hirayama prima di essere pulitore di latrine abbia fatto altro nella sua vita, ma di questo non è dato di sapere (anche se della sua vita passata viene fornito qualche rapido scorcio, più che una vera e propria narrazione): vige nella rappresentazione della sua quotidianità il principio del "qui ed ora" e della sospensione di memoria e desiderio, precondizioni che facilitano l'attivarsi d'uno stato sognante della mente (cosa che accade al nostro Hirayama, quando, a tratti, con l'occhio della mente, gli pare di vedere quel gioco d'ombre e di luci che poi è lo stesso che cerca di catturare nei suoi scatti fotografici.
Certo, la "perfezione" non è mai totale e radicale, come si osserva nelle sequenze finali in cui Hirayama nella sua auto di lavoro corre verso il sorgere del sole e il suo volto, illuminato da una luce calda, presenta una serie di variazioni che vanno dall'estasi più pura al dolore e alla sofferenza: in fondo, è questa la vita, correre incontro al nuovo giorno, in contatto con il proprio sé più profondo e con tutta intera la gamma mutevole dei propri stati d'animo.
Questa sequenza di chiusura, per me, è stata una delle più emozionanti.
Un film "perfetto" per alcuni versi che non può essere bollato con giudizi riduttivistici secondo i quali noi, privi come siamo di alcuni riferimenti culturali propri delle culture orientali, saremmo portati a considerare la vita minimalista di Hirayama come espressione di una vita fallimentare e di rinuncia radicale al raggiungimento di obiettivi ambiziosi.
Come ho scritto questo commento?
Naturalmente ascoltando la colonna sonora del film!
Bellissima!
Daniela Tofi Psi ha scritto nella sua bacheca di Facebook questo magnifico commento al film di Wenders e lo riporto integralmente qui di seguito:
“Komorebi è una parola che in giapponese significa “luce che filtra tra gli alberi”. È composta dai caratteri che indicano albero, splendore e sole. Nelle lingue occidentali non esiste una parola sola per dirlo. Komorebi non si riferisce solo a un fenomeno naturale, indica anche uno stato d’animo: la capacità o lo sforzo di trovare qualcosa che possa suscitare serenità anche nei momenti peggiori della vita. La luce non esisterebbe senza l’ombra, e viceversa. “Luce che filtra dagli alberi” indica la possibilità di trovare qualcosa di luminoso nei momenti più bui. Dissipare le ombre della solitudine, del dolore, dell’ansia attraverso un raggio, una piccola cosa lucente che si manifesta nel nostro ordinario cammino quotidiano. In italiano diciamo luce in fondo al tunnel, come se il dolore e il danno fossero qualcosa di buio da attraversare per tornare a respirare e vedere. In giapponese la luce è nel tunnel, è nel cammino, è sempre – se la sai vedere. Sono uscita dal cinema, l’altra sera, un poco diversa da come ci ero entrata. Speriamo che duri. Intanto voglio alzare gli occhi verso le chiome degli alberi ogni volta che posso. Il bellissimo film giapponese di Wim Wenders, Perfect Days, è un meccanismo sonoro e visivo che ti costringe in prima battuta a prendere i tempi del racconto che non sono i nostri, senz’altro non i miei. All’impazienza dei primi minuti si sostituisce poco a poco l’incanto di quella vita che si ripete ogni giorno uguale, eppure sempre diversa. Un lavoro umile svolto alla perfezione. Un uomo che nasconde un dolore, capace di ridere nel pianto. La musica delle audiocassette, americana, è un tributo struggente all’altra metà del mondo.”
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