L'altro giorno, qualcuno mi ha chiesto
se io sia mai stato veramente felice
Sono di quelle cose che, di tanto in tanto,
si usa chiedere
E' una domanda banale, eppure profonda
Tuttavia, il quesito mi ha lasciato interdetto
e spiazzato, basito quasi;
e, lì per lì, non ho saputo rispondere
In effetti, è vero, sono rimasto quasi senza parole
di fronte ad una domanda che, forse, non mi sono mai posto
Ma si tratta d'una domanda
che, nello stesso tempo, ha un peso
e il porla può avere lo stesso effetto d'un sasso
lanciato su uno specchio d'acqua tranquillo
Il sasso scompare nella liquida profondità,
anzi vi scivola dentro,
ma il suo impatto genera una serie di perturbazioni concentriche
che turbano quella liquida superficie,
altrimenti immobile
Un modo per rispondere, forse, è girarci attorno
Penso, tuttavia, che la Felicità la si possa definire
soltanto per differenza rispetto all'infelicità e al dolore
Ci si deve fare una ragione di ciò,
poiché non esiste un valore assoluto della felicità
ma si tratta di un'entità del tutto relativa,
vaga ed indefinibile
che, comunque, non pertiene
ad una dimensione straordinaria della vita,
ma è bensì intimamente intrecciata con il quotidiano
Quel quotidiano fatto di dolori e sofferenza,
di bisogni che non sempre possono essere soddisfatti
e di desideri che rimarrano inesauditi
La felicità come condizione permanente dell'animo non esiste,
a meno che non si entri nella dimensione estatica della mente,
quella propria di un Santo o di futuro tale che contempla
la trascendenza del divino
Noi Umani che viviamo nella realtà abbiamo
una base di "manque", di bisogni,
e su questa s'innestano dei momenti "felici",
quelli in cui il bisogno è placato,
il desiderio è parzialmente esaudito
il dolore è lenito e così via
Se così non fosse, ci troveremmo a vivere
nella condizione del primigenio stato edenico
che è quella del bambino che, accudito in tutto e per tutto,
ha un seno nutriente e ricco di latte a disposizione
Invece, anche la storia biblica ce lo dice:
noi fummo cacciati dall'Eden
e condannati a sentire il freddo e la fame
a provare dolore
a lottare per sopravvivere
a faticare per trovare il nostro cibo quotidiano
La base è quella:
solo per differenza possiamo cogliere, nell'ordinarietà,
alcuni istantanei passaggi di felicità
oppure trovandoci a sperimentare,
per dirla con Kundera,
una condizione di "insostenibile leggerezza dell'essere"
ma soltanto per momenti veloci e transitori,
Poi, dentro questa cornice,
in una vita di diseqilibri continui
che danno come risultante una condizione di accettabile equilibrio
(come è nel caso della dinamica che sottende l'andare in bici)
ognuno saprà individuare,
e trovandoci continamente impegnati in na lotta per l'omeostasi
i suoi personali momenti di felicità,
ma sempre e solo per differenza
Insomma, dobbiamo tenere conto del fatto che,
in una condizione di "normalizzazione" dell'infelicità quotidiana,
vi possano essere momenti fulgidi e straordinario
nei quali possiamo avere la sensazione
di toccare il cielo con un dito
o di levitare a tre metri o a 15 metri da terra
Abbiamo sempre a che fare con forze contrapposte
che, dentro di noi, si integrano ed interagiscono di continuo,
come lo Yin e lo Yang della tradizione orientale
ambedue le forze fondamentali e necessarie
nell'equilibrio dell'intero universo
e del singolo individuo
Non è detto che la felicità significhi una vita senza problemi.
La vita felice viene dal superamento dei problemi, dalla lotta contro i problemi, dal risolvere le difficoltà, le sfide.
Bisogna affrontare le sfide, fare del proprio meglio, sforzarsi.
Si raggiunge la felicità quando ci si rende conto di riuscire a controllare le sfide poste dal fato.
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