Durante gli anni della mia formazione (non quella da psichiatra, ma piuttosto quella successiva da psicoterapeuta) mi imbattei in un saggio estremamente interessante, scritto dalla psicoanalista svizzera Alice Miller, che lessi con avidità.
Il volume, pubblicato da Boringhieri nel 1987 e che vide poi successive riedizioni, era intitolato "La persecuzione del bambino. Le radici della violenza". La sua traduzione arrivava in Italia non molto più tardi della pubblicazione in lingua originale, nel 1980.
In questo saggio, la Miller partiva da un excursus storico sul tema della "pedagogia nera" che per vari motivi si trovò ad essere imperante nei sistemi educativi intra ed extrafamiliari tra la fine del Settecento e tutto l'Ottocento, nella maggior parte dei paesi europei con un suo nucleo pulsante ed irradiante nei paesi anglofoni e di lingua tedesca: metodi fondati sulla coercizione dei giovani, sulla loro mortificazione e, in sostanza, sulla persecuzione di ogni elemento vitale. Tali metodi educativi "neri" avevano delle clamorose ricadute: basti pensare - a titolo di esempio - alla figura del padre del Presidente Schreber (che diventò poi uno dei casi clinici freudiani), rinomato (o, forse, si dovrebbe dire "famigerato") pedagogista del tempo che arrivava persino a progettare specifici dispositivi (tipo tutori) per insegnare ai propri figli le più corrette posture nei diversi contesti e le cui metodologie educative vennero successivamente esaminate nel saggio di Morton Schatzmann, La famiglia che uccide. Un contributo psicoanalitico alla discussione sul caso Schreber (originariamente pubblicato da Feltrinelli negli anni Ottanta del secolo scorso) per mostrare come il loro impiego potesse avere degli effetti devastanti nella crescita degli individui che vi erano esposti.
Si chiedeva la Miller, inoltre, se fosse possibile parlare - al tempo in cui scriveva il suo saggio - di una pedagogia "bianca", finalmente libera dal veleno di quei metodi tanto afflittivi oppure se non fosse vero piuttosto il contrario che cioè, dietro a metodi pedagogici illuminati e non coercitivi, potessero nascondersi - per fare improvvisa irruzione - quei metodi nefasti, apparentemente superati.
In, effetti, la Miller mostrava come ciò potesse avvenire e indicava anche come in educatori moderni, apparentementi irreprensibili, potessero nascondersi fantasmi del passato e cascami educativi, fondati proprio su quei metodi educativi "neri".
La seconda parte del volume della Miller era dedicata a degli studi di "psicoanalisi applicata" proprio per mostrare come l'esposizione ai medodi della pedagogia nera avesse potuto determinare profonde deformazioni della personalità di tre personaggi e cioè Christiane F. (l'autrice del libro autobiografico Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino), Adolph Hitler e il criminale degli anni Sessanta Jurgen Bartsch, assassino e seviziatore di bambini, forgiandone il destino.
La tesi finale della Miller è che, malgrado le intenzioni dichiarate siano difformi, al tempo in cui scriveva le sue considerazioni - e io credo a tutt'oggi - nei sistemi educativi (da quello familiare a quello scolastico) vengano messi in atto dei metodi "neri" mascherati, allo scopo di piegare la caparbietà e l'impetuosità vitale del bambino e piegarlo alle esigenze degli adulti. Avverte la Miller che quest'azione educativa (e quella occulta risulta essere ancora più insidiosa) può portare nel lungo termine i bambini che vi sono esposti (specie nella loro transizione ad individui adulti) alla necessità di riempire con esperienze abnormi il vuoto lasciato dalla rimozione delle emozioni e dalla perdita dell'identità (che spostandoci ad altro ambito viene perfettamente delineata nel celebre concept album dei Pink Floyd, The Wall e nel film di Alan Parker che ad esso fu ispirato).
Lessi il saggi della Miller con una forte partecipazione emotiva dal momento che mi sembrò di rinvenire numerose tracce di quella "pedagogia nera" in certi input educativi che io stesso avevo ricevuto da bambino. Ad esempio, la nonna paterna quando dicevo delle frasi sconvenienti, esortava mia madre a pungermi la lingua con uno spillo, qualora avessi ripetuto quelle parole (e mia madre che era di ampie vedute mai si adeguò fortunatamente a quest'invito). Oppure, citerò qui anche il caso di una mia prozia che, tutta vestita in nero (rimasta vedova, non aveva più smesso il lutto), mi inseguiva per casa con un ago in mano con il quale avrebbe voluto pungermi perchè avevo fatto una monelleria.
Per non parlare di un'esperienza al tempo delle elementari che frequentai in una celebre scuola gesuitica di Palermo, in cui - quando andavo in quarta elementare, se mi sovviene la memoria - mi venne comminata la punizione di scrivere sul quaderno per 500 volte la frase "Non si parla in classe": compito da eseguire a casa e che io, vergognatissimo e determinato a tenere nascosta l'onta a tutti i costi ai miei genitori, portai a termine nascosto sotto il letto e fuori dalla vista.
Adesso che siamo nel XXI secolo parrebbe che siamo tutti di vedute abbastanza liberali e avanzate in fatto di educazione: ma non bisogna mai essere troppo ottimisti, anche quando i nostri figli sono in mani pedagogiche affidabili. L'insidia della "pedagogia nera" può sempre saltare fuori come un jack-in-the-box beffardo e sbeffeggiante (ma anche minaccioso, in definitiva), in modo tale da vanificare l'effetto dei metodi educativi che si dichiarano più moderni e più rispettosi dell'identità dei nostri piccoli.
Ed ecco che adesso - a dimostrazione di ciò - accennerò brevemente a ciò che è successo in ambito scolastico a mio figlio Gabriel che ha poco più di otto anni.
L'altro giorno è uscito da scuola con un razzo di carta, ricavato da un foglio di quaderno a quadrettoni e me lo ha dato.
Ho visto che, sul foglio, c'erano scritte delle frasi e l'ho disteso, allora, per guardare meglio.
Ho constatato che vi era stata scritta più volte la stessa frase che faceva così "Non devo parlare". La frase riempiva per intero le due facciate del foglio ed era stata riprodotta ben 42 volte. Non c'era dubbio che a Gabriel fosse stato chiesto di scrivere questa frase, perchè si era distratto durante l'ora di lezione, magari dicendo qualcosa al compagno più vicino.
Mi sono chiesto ovviamente cosa potesse mai significare un'ingiunzione così decontestualizzata: un bambino a scuola, solitamente, lo si invita a parlare, ad esprimersi, a raccontare le proprie emozioni. Una frase di questo tipo da scrivere iterativamente come punizione mi è sembrata mortificante ed afflittiva, proprio perchè agli antipodi di un corretto approccio educativo. Lasciando perdere ogni valutazione sulla "bontà" del metodo, sarebbe stato meglio e più appropriato fare scrivere, ad esempio, "Non devo parlare con i miei compagni durante la lezione" oppure "Non devo distrubare la lezione". Chiedere ad un bimbo di mettersi a scrivere iterativamente una frase "punitiva" sul quaderno, mentre gli altri compagni continuano a seguire la lezione, è una misura costrittiva ed estraniante, pari a quella - che si adottava un tempo - di far mettere colui che disturbava la lezione in corso in piedi dietro la lavagna.
Comunque, mio figlio non sembrava particolarmente turbato del fatto accaduto, ma indubbiamente - trasformando il foglio della punizione in razzetto da far volare - aveva sentito l'esigenza di compiere un gesto apotropaico, eliminando - ho pensato - l'aspetto "intossicante" della punizione comminata.
La mia reazione - in ogni caso - è stata fortemente emotiva, perchè - immediatamente - mi ha riportato indietro a quella mia esperienza scolastica di cui ho detto, dandomi la misura quanto potesse incongrua una simile punizione più di cinquant'anni dopo ed in un contesto che non è quello gesuitico, ma che si pone la mission di rispettare il più possibile la personalità in formazione dei bambini che gli sono stati affidati.
L'episodio accaduto è una riprova ulteriore della tesi della Miller secondo cui cascami della pedagogia "nera" sono sempre lì e possono sempre riafforare anche da parte dei più insospettabili, come una forma di "ritorno all'antico" o di recupero di esperienze precoci cui si sia stati sottoposti da bambini (con meccanismi che, in taluni casi, come possono essere delle situazioni di stress o di confusione, possono innestarsi quasi a corto circuito, in modo del tutto irriflessivo e secondo una via di minore resistenza).
Già, non bisogna dimenticare che tutti coloro che fanno il mestiere dell'educatore/insegnante sono stati bambini a loro volta e che, dunque, portano dentro di sé, profondamente iscritte, tracce dei metodi pedagogici cui sono stati sottoposti.
La memoria del passato tende sempre a riafforare e ad infiltrarsi nel presente, nei modi più inattesi.
Per scongiurare queste imbarazzanti epifanie occorre sempre vigilare: eventi-spia, come quello in cui è incappato mio figlio, possono pur sempre verificarsi e bisogna poter porre rimedio. Non sono fatti gravissimi in sé, ma tuttavia, riconoscerli impone una riflessione ed una discussione franca ed aperta.
E, credo che il saggio della Miller, sempre attuale, possa aiutarci a trovare delle importanti coordinate di riferimento.
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