Qualche giorno fa (ormai più di un mese addietro), Gabriel mi ha mostrato un punto della sua pelle particolarmente sensibile al solletico e mi ha chiesto: “Ma come mai io non riesco a farmi il solletico, toccandomi proprio lì?”
Difficile a credersi considerando che questo punto, di pochi centimetri quadri, provoca in lui al minimo tocco scoppi di ilarità incontenibile, tanto più dirompente quanto più abbia cercato di trattenersi. A volte il gioco è anche questo: cercare di resistere il più possibile alla frenesia della risata.
Ho cercato di spiegargli una cosa non facile da dire in modo comprensibile e semplice: e, cioè, che l’essere solleticati dipende da una sollecitazione neuropsichica complessa e non è semplicemente l’effetto visibile di un riflesso neuro-motorio, in cui allo stimolo segue un’immediata risposta in termini di contrazione muscolare.
Si tratta invece di una sollecitazione complessa che coinvolge sicuramente, ai più diversi livelli il SNC, dalla corteccia cerebrale, ai nuclei della base e al sistema limbico e che, in larga parte, è efficace soltanto in un contesto “relazionale”: in altri termini, perché si reagisca all’azione solleticante, occorre che ci sia una relazione tra un “solleticatore” e un “solleticato”, anche laddove il solletico venga utilizzato come strumento per infliggere sofferenza (ricordiamoci della raffinata tortura cinese - conosciuta anche come "Tickle Torture" - del solletico ai piedi protratto che, in una dinamica non ludica, trasforma le afferenze sensoriali che solitamente determinano ilarità in sofferenza!).
Quindi, con il solletico siamo nel terreno degli eventi squisitamente relazionali, come sono - ad esempio - l’abbraccio, oppure il bacio. Uno dà qualcosa e l’altro la prende e manifesta questo suo prendere in modi diversi. Nel nostro caso il contatto avviato dal solleticatore è efficace nel determinare la risata del solleticato. E, se ci si fa caso, nell’azione del solleticare e dell’essere solleticati, entrambi i soggetti dell’azione si divertono da matti. Naturalmente, trattandosi di una modalità relazionale, è l'intenzione di entrambi i partecipanti che definisce l'evento. Il confine tra dimensione ludica e abuso è estremamente sottile e ciò che conta è che il solleticatore non varchi mai quella soglia, mantenendo la relazione nell'ambito del gioco e del divertimento reciproco.
E quindi il solleticare e l’essere solleticati servono al tempo stesso per più scopi: l’apprendimento, la coesione sociale, la stimolazione della secrezione ormonale (probabilmente nell’ambito del sistema dopaminergico e serotoninergico) e l’attivazione di una dimensione ludica tra grandi e piccini, oppure tra pari d’età.
Fateci caso...
Da un certo punto di vista - e questo lo dico senza essere uno specialista del comportamento animale - l’azione del solleticare (con il suo corrispettivo dell’essere solleticati) potrebbe avere una forte valenza nel consolidamento dei rapporti tra gli individui di uno stesso gruppo umano (in questo caso, tra quelli appartenenti ad uno stesso gruppo familiare, oppure o ai due costituenti di una coppia), così come avviene tra le grandi scimmie antropomorfe con il comportamento reciproco (e a volte regolato da una gerarchia sociale) del grooming (ossia il rito dello spulciamento reciproco, osservato tra le scimmie antropomorfe). Non a caso, tra l'altro, proprio per sottolineare come un comportamento relazionale possa divenire abuso, la parola groomingha assunto in tempi recenti un nuovo - e minaccioso - significato per descrivere i comportamenti messi in atto in forma di azioni seduttive e di corteggiamenti vari dal potenziale abusatore nei confronti di soggetti vulnerabili e privi di difese strutturate. In questo caso, dietro la maschera ludica del solleticatore si nasconde il lupo cattivo e il predatore.
Tempo addietro un geniale psicoanalista britannico della scuola “di mezzo”, Adam Phillips, scrisse su questi temi un brillante libro di saggi che, ristampato nel 2011 da Ponte alle Grazie (prima edizione del 1993), merita sicuramente una rilettura o una lettura, perchè tratta temi tuttora fortemente attuali.
(dal risguardo di copertina dell’edizione di Ponte alle Grazie del volume di Adam Phillips) Raccontare storie e dissertare di argomenti psicoanalitici potrebbero sembrare attività distanti, forse inconciliabili. I libri di Adam Phillips dimostrano proprio il contrario: le teorie dei grandi analisti del passato si possono spiegare con i racconti dei pazienti e degli psichiatri, con le vicende dei personaggi che popolano le nostre nevrosi e che cerchiamo di ricostruire sul proverbiale lettino. Nei saggi raccolti in questo libro lo psicoanalista britannico affronta temi «seri», come la solitudine e la preoccupazione, e altri che, pur apparentemente «frivoli», non andrebbero per questo trascurati: altrettanti segnali del profondo, il solletico, la compostezza, la noia, il bacio vengono scandagliati da Phillips aggirando l’idea che l’analista abbia a che fare unicamente con i «pazienti». Il risultato è un’indagine anticonformista, dai risvolti spesso insospettabili e avvincenti, dove i fitti riferimenti al corpus freudiano e alle opere di Winnicott aiutano a chiarire, e mai a confondere. Anche sulla pagina scritta, la «terapia della parola» è tanto più potente ed efficace se lo psichiatra e il suo interlocutore si concedono lo spazio necessario per ascoltarsi e, soprattutto, scoprire le storie di cui sono autori e protagonisti.
Questa nota è stata originariamente pubblicata su Facebook il 20 febbraio 2020