Essere fratelli: ciò che avrei voluto dire su mio fratello Salvatore al termine del servizio funebre
(Maurizio Crispi) Il 21 giugno 2015 se ne è andato all'improvviso mio fratello Salvatore, lasciando un vuoto incolmabile in tutti noi.
Tantissime le testimonianze di stima e di affetto, indirizzate all'uomo, alle sue qualità umane, alla sua capacità e alle sue competenze nel portare avanti le battaglie per la tutela dei diritti delle persone con handicap.
Per me è stato prima di tutto fratello: e, nel momento della sua morte, ho potuto vedere meglio in prospettiva, quanto aveva fatto nel corso della sua vita, l'importanza delle sue iniziative e del suo operare con l'applicazione di tenacia ed infinita pazienza, come se - nel corso della sua vita - egli fosse sempre stato intento a tessere un arazzo, con l'aiuto di molti altri, un arazzo dala cui trama non era ancora data la possibilità di vedere emergere un disegno completo, che tuttavia esisteva nella sua vision condivisa.
Da questo punto di vista, riguardando molte delle immagini di lui che conservo nel mio archivio fotografico, Salvatore era sempre pronto ad uscire in "missione" (così voglio pensare), come "emissario" del Coordinamento H che rappresentava, avendo sempre in mente, malgrado gli scacchi e gli apparenti passi indietro, malgrado le inevitabili delusioni, i raggiramenti dei molti volti della Politica, il prevalere degli interessi personali di questo o di quello, ben salda dentro di sé la sua vision: quella vision che rappresentava la sua forza interiore, attraverso alcune parole chiave fondamentali, come era per lui il principio della "normalizzazione" delle disabilità oppure quello del giocare il tutto per tutto per indurre quelli che hanno il potere decisionale di portare avanti delle strategie unitarie e globali o quello ancora più stringente di spingere le diverse Associazioni a fare "massa" per chiedere il rispetto delle leggi e la loro applicazione con una sola voce, anziché con mille pigolii non sintonizzati che vengono dispersi dal vento.
E, seguendo questi principi, Salvatore - assieme ai suoi spingitori - era sempre in cammino.
Quello che voglio dire di lui, invece, riguarda il mio essere stato fratello e l'avere condiviso con lui una vita come fratello, con momenti di condivisione, di solidarietà reciproca, qualche volta di scazzi e di incomprensioni, ma sempre fugaci.
Qualche volta litigavamo per questioni banali (viste in prospettiva) e poi lui veniva a bussarmi alla porta e facevamo pace, chiedendoci reciprocamente scusa per avere ecceduto nei toni.
Con lui avevamo spesso un modo lieve di rapportarci, immortalandoci spesso in fotografie ironiche (che scaturivano sempre da una mia iniziativa e che lui tollerava, regalandomi il suo sorriso e il suo sguardo buono), indossando buffi copricapi e improbabili mascheramenti.
Da un certo punto di vista, assieme a lui continuavo a sentirmi come il ragazzino che condivideva i momenti gioiosi con un fratello con un handicap, vissuto tuttavia in modo normale.
E lui accettava sempre con pazienza questo mio modo di rapportarmi: in questo modo, riuscivamo a vivere con leggerezza anche i momenti più difficili e quelli in cui lui mi guardava con occhi addolorati o corrucciati.
Quindi, qui di seguito, riporterò ciò che avrei voluto dire al termine del servizio funebre celebrato per lui nella Chiesa di Regina Pacis di Palermo il 23 giugno: tutto ciò che avrei voluto dire, ma che sul momento non ha detto.
Al termine del servizio funebre per mio fratello, alcuni si sono alzati per dire qualcosa su di lui, soprattutto sulle sue opere e sul suo impegno costante.
E, del resto, anche Padre Giovanni nel corso della sua omelia aveva detto delle splendide cose su di lui e su ciò che aveva aveva fatto e per cui aveva lottato nel corso di un'intera vita e, molto opportunamente, da sacerdote moderno che segue i social e i giornali online, era partito citando molte delle cose scritte su di lui e citando alcune delle definizioni coniate per descriverne l'impegno in maniera incisivo, come ad esempio "Salvatore Crispi, gigante dei diritti dei disabili" oppure "Salvatore Crispi lottatore tenace ma educato" (e tante altre, tutte di questo tenore).
Anche io avrei voluto dire la mia, lanciare alla folla commossa che gremiva la chiesa, qualcosa di significativo e di intenso.
Ma mi sono astenuto: innanzitutto, perché temevo di essere tradito dalle mie emozioni, in secondo luogo, poichè di mio fratello con il suo carisma di "personaggio pubblico" (ma decisamente anomalo nel suo ruolo di maestro che ha sempre, umilmente, negato di esserlo), tutto - o molto - era stato detto.
Avrei voluto dire qualcosa tuttavia sull'essere stati fratelli.L'essere fratelli implica condivisione di molte cose, ma anche scontri, incomprensioni, piccole liti, silenzi e mugugni, ma anche solidarietà, mutuo aiuto e molto altro, in una continua altalena.
I nostri genitori ci hanno fatto crescere così: in famiglia mio fratello era "normale", nel senso che non riceveva nessun speciale privilegio per la sua condizione o un surplus di attenzioni (salvo quelle fisiche necessarie a superare il suo handicap).
Se da piccoli, mentre mangiavamo ci veniva la ridarella incontenibile, la mamma dispensava un ceffone a me e a lui, senza utilizzare due pesi e due misure.Per lei, sotto questo profilo eravamo eguali.
E, in effetti, i miei genitori - come, solo pochi anni prima di morire, ebbe a raccontarmi la mamma - avevano deciso, inizialmente, che non ci dovessero differenze tra me e Salvatore: quello che davano a me, davano a lui, quello che programmavano di fare lo portavano avanti soltanto se poteva essere una cosa di cui avremmo potuto usufruire entrambi.
Un giornalino per me, un giornalino per lui.
Un giocattolo per me, uno per lui.
Ma sempre cercando di cogliere le differenze e le preferenze individuali.
Poi, in un secondo momento, dopo che fummo un po' più grandi, capirono che in questo modo non si poteva procedere e che bisognava differenziare, poiché altrimenti c'era il rischio di privarmi di esperienze che era giusto che io avessi, lasciando inalterato il principio che per tante altre cose mio fratello dovesse essere coinvolto: per esempio, con tutte le difficoltà connesse, si andava regolarmente in spiaggia, dove avevamo la cabina. Mio fratello lì faceva quasi tutto quello che facevo io: quando avemmo un canotto di gomma, armato di salvagente, veniva a fare le passeggiate con me o con mio padre.
Mio padre, mia madre, io stesso, quando fui abbastanza forte per poterlo fare, lo trasportavamo in braccio o caricandocelo sulle spalle (questo lo faceva mio padre, soprattutto quando si andava in case prive di ascensore).
Ed io fui addestrato precocemente a capire che anche a me toccava occuparmi di mio fratello, in maniera assolutamente regolare e fluida: occuparsi di lui, tutti, in maniera intercambiabile, era la norma.
Quando ero tredicenne, o giù di lì, papà e mamma uscivano la sera per andare a teatro (non si privavano di una vita sociale, sempre all'insegna del principio che si doveva - e si poteva - vivere in modo normale) ed io rimanevo con Salvatore: cenavamo assieme e poi io lo mettevo a letto, perchè ero stato addestrato ad aiutarlo, in un contesto in cui l'"aiuto" per sopperire alle sue disabilità fisiche, altro non era che una modalità relazionale dominata dall'affetto (sia pure "speciale", in quanto era intrisa dell'esigenza di "servizio", sempre gioiosa, mai costrittiva).
Passavamo del tempo assieme: ore trascorse a giocare a carte, oppure a scacchi o a dama. A leggere i fumetti assieme, lui i suoi (Intrepido), io i miei (Topolino).
Eravamo insomma due fratelli "normali": non c'era nessuno stress particolare sulla sua condizione clinica.
Non c'era niente a quei tempi per i disabili, pochissimi gli interventi specializzati disponibili, pochissimi i presidi.
Mancavano delle carrozzine funzionali, ritagliate su misura su piccoli corpi in crescita, se non quelle assolutamente ingombranti e poco funzionali in stile ospedaliero d'antan. Ricordo che mio fratello, sino a quando abitavamo nella casa di Viale Regina Margherita, aveva per casa una normale poltroncina a rotelle da ufficio che era quanto di più comodo e più funzionale che i miei avessero trovato per lui e le sue esigenze.E per mezzo di questa seggiola, mio fratello poteva essere spostato agevolmente da una stanza all'altra.
Poi, tramite lo zio Giovanni, arrivò dalla Germania una moderna carrozzina pieghevole di acciaio tubolare, leggera, con seduta di plastica resistente tipo cuoio, ruote posteriori grandi con anello di propulsione, rotelle anteriori piccole e pedane anteriori pieghevoli.Una cosa mai vista, funzionale e scintillante, come una piccola spider.Mio fratello cominciò ad usare questa per casa e per uscire: un grande cambiamento.
Ma per noi fu una festa: fu come avere acquisito un grosso giocattolo.
Quando eravamo soli in casa, improvvisavamo delle corse su e giù per il corridoio - io come spingitore - , affrontando le curve a velocità folle.Una volta, rischiammo di ribaltarci in una curva presa ad eccessiva velocità.Ma di queste follie la mamma non seppe mai nulla.
E grandi erano le risate.
Ecco questa immagine di gioiosità condivisa mi è venuta in mente e continuo a rievocare, quando pensò all'ultimo sguardo angosciato che mi ha lanciato mio fratello nel momento in cui se ne andava, assieme al tentativo di dirmi una frase che non riuscì a pronunciare e il cui contenuto non potrò mai sapere: un'immagine paradigmatica di gioia totale e di complicità che ritengo essere alla base del nostro imperfetto rapporto tra fratelli.Ecco, questo avrei voluto dire, al termine del servizio funebre.Ma lo sto dicendo ora.
Ecco, avrei voluto dire: "Siamo stati fratelli!"
O, ancora di più: "Siamo fratelli!".
E, a proposito dell'essere in cammino: una persona come Salvatore con il tipo di handicap di cui è portatore, ha bisogno sempre di uno "spingitore" o di molti "spingitori".
Ma non si può essere "spingitori" senza condividere un modo di vedere, senza mettersi nello stesso vertice di osservazione, senza costruire a poco a poco una visione condivisa.
In questo modo, il gioco che io e Salvatore facevamo conteneva in nuce - e rappresenta simbolicamente -l'esperienza fondante di essere uno spingitore.
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